Posts written by Albrecht

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    CITAZIONE (Cacciatore tedesco @ 19/1/2017, 18:18) 
    CITAZIONE (Albrecht @ 30/4/2013, 16:14) 

    Gustave Courbet - Il cacciatore tedesco

    1859 - olio su tela - 119,5x177 cm - Lons-le-Saunier, Musée des Beaux-Arts


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    Grazie per il contributo ma il dipinto era già stato inserito a pagina 3.
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    Grazie. :B):
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    In sala il 29 gennaio il film con Timothy Spall, migliore attore a Cannes, dedicato alla vita del pittore romantico inglese

    SPESSO i film biografici sono noiosissimi, finti e bugiardi, e si occupano soprattutto degli amori giovanili del personaggio. Se poi si tratta di un pittore, sono guai: quando non bacia le sue dame (o nel caso di Bacon, i suoi ragazzi), sbatacchia il pennello sulla tela in preda alla creatività, con pessimi risultati. Se Mr. Turner è tanto affascinante è perché, diretto dall'inglese Mike Leigh, racconta di un grande artista (e chiunque abbia fatto un viaggetto a Londra ha visto l'abbondanza delle sue opere alla Tate Britain che possiede anche molti suoi disegni erotici), negli ultimi anni della sua vita (morì nel 1851 a 74 anni), un vecchio particolarmente brutto e scostante, circondato da donne altrettanto malandate, e la cui sola ragione di vita è disegnare e dipingere tempeste, naufragi, incendi, nebbiosi paesaggi inglesi, cieli rossi veneziani, selvagge campagne olandesi, e qualche scena mitologica, tipo Apollo sconfigge il drago: oppure il primo treno a vapore o i mercanti di schiavi che buttano a mare i moribondi. Si tratta della grigia vita di un genio in là con gli anni, vissuto nell'epoca georgiana e poi in quella vittoriana, cresciuto al tempo dei costumi libertini, che non abbandona poi negli anni conformisti e ipocritamente pudichi.

    Il cinema inglese ha la fortuna di avere grandi attori anche per i ruoli minori: e poi magnifici protagonisti come Timothy Spall, che ci riporta davvero indietro di due secoli negli abiti sgualciti e forse puzzolenti (ci dorme dentro), di Joseph Mallord William Turner. E più che parlare, grugnisce, borbotta, bofonchia, oppure tace, chiuso nel suo disinteresse per gli altri. Gli esperti dicono anche che i dialoghi del film sono non nell'inglese di oggi, ma in quello dickensiano: doppiandolo in italiano (perché non possono bastare i sottotitoli?), si perderà parte della sua bellezza. Il pittore vaga per l'Europa col suo taccuino, su cui schizza i paesaggi o gli eventi che poi in studio dipingerà, e il film inizia con una bellissima inquadratura del verde della campagna olandese, dove lui come sempre, incurante degli umani, è tutto preso dalle sfumature del cielo. A casa lo aspettano il padre, un tempo barbiere (la madre è morta pazza) e ora suo affettuoso assistente, forse la sola persona che Turner ami, e Hanna, la miserevole governante, malata di scrofolosi, che ogni tanto, senza parlare, lui schiaccia contro un mobile e da dietro la prende, in assoluta indifferenza.

    Nella sua vita le donne sono un ingombro. Oppure un'ispirazione professionale, come la giovane prostituta di un bordello, o un temporaneo errore, come la moglie Sarah: ennesima bruttona incattivita, da cui ha avuto due figlie. L'unica cui è affezionato è la vedova Booth, padrona di una pensioncina a Morgate sul mare. Nel suo studio dipinge, sputa sulla tela per sfumare i gialli solari e i profondi blu con le dita, anche nella grande mostra annuale alla Royal Academy dove prende in giro l'altro celebre artista del paesaggio, Constable. Ma anche la fama di Turner si sta offuscando e il solo a difenderlo è il giovane, verginale e presuntuoso John Ruskin, critico d'arte ma anche pittore che lo imita. Alle successive mostre lo prendono in giro e la giovane e minuscola regina Vittoria accompagnata dall'imponente marito principe Albert davanti alle sue marine esprime a voce alta il suo disgusto. Il vecchio pittore viene ridicolizzato. Si sta ormai affermando un gruppo di giovani, che nei quadri riproduce figure quasi rinascimentali: i Pre-Raffaelliti. Così un'arte che ritorna all'antico sconfigge quella di Turner, quasi impressionista. Certo Turner è un film molto inglese, nella semplicità della storia e, pare, nel rispetto della verità di Turner: le immagini sono magnifiche, magnifica la ricostruzione di luoghi e costumi, e rara la capacità di Leigh di farci vedere tempi e luoghi come li vedeva lo stesso Turner.

    repubblica.it
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    Un omaggio a un artista dai tanti interessi e talenti, che fu umanista, poeta, cosmografo. Così seppe trasmettere la lezione del Mantegna. Andando oltre

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    Il corpo non ancora martoriato è intatto, bellissimo, reso nella monumentalità di un busto antico, nella plasticità nuova delle carni. La luce e l’ombra si inseguono a sottolineare la sofferenza tutta umana del Cristo, il collo livido, il volto solcato di lacrime. È un’immagine di verità impressionante il Cristo alla colonna di Donato Bramante, l’unica opera su tavola a noi rimasta, ma che ben sa testimoniare il classicismo rigoroso e insieme coinvolgente, la capacità di armonizzare le regole della prospettiva, la grandiosità della costruzione architettonica con la drammaticità del racconto. Nonostante la sua fama sia soprattutto dovuta alle imprese romane, è nel precedente soggiorno a Milano e in Lombardia che l’artista, formatosi al magistero di Piero della Francesca, dell’Alberti e del Laurana nella raffinata corte di Urbino, porta a maturazione quelle originali soluzioni che lo renderanno un protagonista centrale del grande Rinascimento italiano. E oggi, a cinquecento anni dalla sua morte, la Pinacoteca di Brera lo celebra con una mostra curata da Sandrina Bandera, Matteo Ceriana, Emanuela Daffra, Mauro Natale e Cristina Quattrini, dedicata alla sua opera pittorica, tanto rara ma altrettanto preziosa a delineare la portata innovativa del suo linguaggio e l’impatto che la sua opera ha avuto in ogni ambito delle arti figurative lombarde. «È la più intima essenza di Bramante quello che i capolavori riuniti a Brera si propongono di evidenziare.

    Un omaggio a un artista dai tanti interessi e talenti, che fu umanista, poeta, cosmografo, che seppe trasmettere la lezione del Mantegna ma andando oltre, dialogando con le realtà e le tradizioni figurative ancora tardo-gotiche locali, sperimentando le tecniche e i materiali più vari. Decori, apparati lignei, oreficerie, tutto a San Satiro come in Santa Maria delle Grazie, a Vigevano o a Pavia, doveva essere approvato da lui, ingegnere ducale e consulente per eccellenza, quasi arbiter elegantiarum degli Sforza», precisa Sandrina Bandera. «In lui — aggiunge — tutto è pensato alla luce di una prospettiva architettonica unitaria, di una visione armonica degli spazi e degli effetti illusionistici, nelle chiese, nelle piazze, nei cicli di affreschi che progetta quale regista di grandiose imprese scenografiche. La grande rivoluzione di Bramante è proprio questa». L’impatto della mostra è fortissimo. Ad accogliere i visitatori sono le prime prove dell’attività dell’artista in Lombardia, l’affresco per il Palazzo del Podestà a Bergamo e quell’Interno di tempio o Incisione Prevedari del 1481 che lasciò echi importanti delle sue invenzioni — la prospettiva vertiginosa del colonnato, le volte cassettonate, l’oculo, i fregi col centauro — nel cantiere di San Satiro, nell’opera di Matteo da Milano, del Butinone, di Vincenzo Foppa con la sua bellissima Madonna del tappeto, dell’allievo Bergognone.
    Ma la sezione forse più spettacolare del percorso è quella dedicata ai celeberrimi Maestri d’arme dipinti per il palazzo del nobile Gaspare Visconti, intellettuale e amico dell’artista, così come Filippo Eustachi o Gian Giacomo Trivulzio. Ormai lontani gli austeri «baroni» dell’Amadeo e del Mantegna, quella che ci viene incontro è un’umanità nuova, giganti di cui sono messe in evidenza le virtù eroiche e morali con un potente effetto illusionistico. Si rivelerà una sorpresa questo evento di Brera. Per gli inediti, illuminanti accostamenti tra le opere della collezione permanente e i tanti prestiti di qualità straordinaria messi a confronto, gli studi del Bramantino, il Salvator mundi del Bergognone, gli Angeli cantori e suonatoridi Bernardo Zenale. Ma anche per la scoperta di un Bramante diverso, non solo il grande architetto, non solo il teorico, ma un uomo versatile, aperto alle novità, fantasioso, come ci restituisce quella sorridente immagine di Democrito da molti ritenuta il suo autoritratto.

    corriere.it
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    Quando dipinse Impressione. Levar del sole, Monet non cercava i contorni di quel paesaggio immerso nella luce di Le Havre. Non cercava quella rada sullo sfondo e nemmeno quella barca sottile che dondolava cullata dal primo sole. No, come rivelò in un’intervista del 1898, cercava l’«impressione».

    Voleva cogliere un momento preciso, in cui il sole nascente, l’ora, il cielo, la barca, il freddo novembrino e la luce autunnale si condensassero in un’alchimia pittorica. Da quella distorsione emotivo- atmosferica nacque l’Impressionismo (gli chiesero un titolo per il catalogo e lui rispose: «Mah, direi Impressione») ed è questo strano momento fatto di materia che Donald Olson va a cercare meticolosamente quando data i dipinti di Monet, van Gogh o Munch. Olson è un astrofisico che insegna all’Università del Texas e ha fatto parlare molto di sé quando, quattro mesi fa, ha dichiarato: «Impressione. Levar del sole di Claude Monet è stato dipinto il 13 novembre 1872 alle 7.35 di un freddo mattino».

    Un saggio e una mostra al Musée Marmottan di Parigi (aperta fino al 18 gennaio 2015) con la quale ha illustrato scientificamente il proprio lavoro non sono bastati a sedare le polemiche: ma come si può datare con precisione così assoluta la realizzazione dell’opera? E poi, che cosa si intende per 7.35? Il minuto in cui Monet diede la prima pennellata?

    Domande che «la Lettura» ha rivolto al professore. La risposta è stata seria, puntuale e articolata. «Dietro ci sono quindici anni di lavoro — dice Olson —. Quello che voglio non è fare semplice enigmistica. Voglio rompere le barriere tra arte e scienza. La scienza è in grado di penetrare i misteri dell’arte. Sapere quando Monet ha cominciato a dipingere quel quadro, perché di questo si tratta, ci aiuta a capire perché quel riflesso sull’acqua ci colpisce tanto; perché quella barca si trova proprio in quella posizione e non altrove. È uno scandaglio scientifico nell’insondabile». Olson ha datato anche altre opere, come La tempesta di Edvard Munch (19 agosto 1893, ore 21.15) o Luna che sorge di Vincent van Gogh (13 luglio 1889, ore 9.08), ma il cammino fatto per arrivare alla data di Impressione è esemplare per capire il suo metodo. «Quindici anni fa — spiega — con il nostro team, ho cominciato a raccogliere fotografie di quella zona di Le Havre nel 1800: si parte ricostruendo esattamente il luogo. Oggi se ne trovano online, ma anni fa ho dovuto faticare. Solo un anno fa, su eBay, cercando “Le Havre albumine tirage”, sono riuscito a procurarmi le stampe all’albume del porto di Le Havre, dove Monet, per sua stessa ammissione, aveva affittato una stanza d’albergo per dipingere. Finché non abbiamo fatto centro: trovare la finestra, vale a dire la stanza esatta dell’Hotel de l’Amiraute dove il pittore alloggiava. Ossia, il punto di vista. Fondamentale per capire le ombre, le maree, il gioco di luce dell’atmosfera. Insomma, l’ora esatta».

    Poi il prof-segugio si sposta a raccogliere i bollettini meteo del periodo (gli sono stati fondamentali anche per ricostruire la celebre foto Luna d’Autunno di Ansel Adams, del 15 settembre 1948, ore 19.03). «Presso il ricco archivio di Meteo France si trovano aggiornamenti quasi quotidiani. Erano molto importanti per le attività marittime dell’epoca e così siamo riusciti a restringere il campo: di quel quadro avevamo una sola data, un “’72” apposto dopo la firma». Che giorno era? Individuare il 13 novembre è stata una fatica: in genere qui nelle analisi di Olson subentrano le lettere dell’artista, ma la corrispondenza di Monet in quel periodo è scarsa.

    Lo scienziato arriva alla datazione attraverso un complesso studio incrociato: le lettere precedenti, le testimonianze, gli schizzi di altre opere. Poi si giunge a un altro aspetto molto importante, non solo in questo quadro ma anche in un’altra datazione clou della carriera di Olson, come Scogliera di Étretat al tramonto (5 febbraio 1883, ore 16.53) sempre di Monet: lo studio delle maree. «Semplice: i bollettini dell’epoca informano nel dettaglio a che ora una determinata barca poteva mettersi in mare. Restringendo la fascia oraria, le barche più grandi (sullo sfondo, ndr) potevano passare lì in un arco di tempo di 3-4 ore a partire dall’alta marea. Incrociando questo con i riflessi del sole e con tutto il resto, ecco l’ora che ha partorito Impressione. Levar del sole».

    Insomma, quello che Olson cerca non è tanto «la prima pennellata », bensì la sensazione di quel momento che Monet ha voluto immortalare. E sapere che ora era, da dove stava guardando o che tempo c’era, diventa importante. Così come, datando La tempesta di Munch, quel dipinto in cui gli esseri umani sembrano sul punto di essere spazzati via da una minaccia invisibile ma imminente, serve a capire che Munch, Monet o van Gogh non si mettevano al cavalletto in orari a casaccio, ma «sceglievano l’ora, la data, insomma, il momento giusto».

    Per esempio quando, nel 2003, Olson (insieme al fisico Russell Doescher) ha analizzato L’urlo di Munch, ha scoperto che quel fondo rosso che determina l’angoscia esistenziale della figura in primo piano, non è frutto della fantasia dell’artista, bensì è un effetto della spaventosa eruzione del vulcano Krakatoa, del 1883. «Nel caso di van Gogh, poi — continua Olson, che spesso nelle sue analisi è accompagnato dalla compagna e studiosa Marilyn — ricostruire l’ambiente è fondamentale, perché lui stesso una volta disse che non dipingeva mai affidandosi alla memoria, bensì non faceva che tradurre sulla tela quello che trovava nell’ambiente». Per esempio, solo grazie a calcoli astronomici si è capito che il dipinto del 1889 era un’alba di luna, e non di sole come si è pensato in passato.

    Ma quale resta il grande mistero dell’arte per Olson? Non risponde direttamente ma se ci mettiamo anche noi a fare i «segugi» e a spulciare nei suoi scritti, affiora un nome: La notte stellata di van Gogh. Della quale, al momento, sappiamo «solamente» che risale al 1889.

    corriere.it
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    La Galleria Nazionale d’Arte Antica in Palazzo Barberini, in collaborazione con la soc. Beni Culturali e con il sostegno di The Sir Denis Mahon Charitable Trust, dà vita ad una rassegna culturale che, per completezza e rigore, sarà da considerare un omaggio di ampio respiro alla grande stagione del Barocco e all’opera di Sir Denis Mahon, che di tale periodo fu grande studioso ed estimatore di fama internazionale.

    Il progetto, a cura di Mina Gregori, è realizzato con la preziosa collaborazione del Trustee della Fondazione Mahon e con il supporto dei suoi illustri colleagues. A sostegno scientifico di questo ambizioso progetto, Mina Gregori sarà affiancata da Anna Coliva, direttrice della Galleria Borghese, e da Serjei Androsov, direttore del Dipartimento dell’arte europea occidentale dell’Hermitage Museum.

    La mostra è stata concepita direttamente dallo stesso Mahon che già nel 2009 manifestò alla Prof.ssa Mina Gregori e all’Ing. Roberto Celli, il desiderio di festeggiare i suoi 100 anni assieme ai dipinti che lo avevano accompagnato nel corso della sua vita, radunando almeno parte dei capolavori che aveva collezionato e donato alle più prestigiose istituzioni internazionali, oltre ad esporre alcune eccezionali attribuzioni e scoperte fatte, da Guercino a Caravaggio a Poussin.

    Come ben dice Nicholas Penny, direttore della National Gallery di Londra, “quella di Sir Denis Mahon è la collezione privata più pubblica che esista”, proprio per il suo grande mecenatismo e senso civico che l’hanno portato a donare tutte le sue opere a istituzioni pubbliche affinché fossero fruibili dal maggior numero possibile di persone.

    La mostra è prima di tutto un omaggio a un grande gentiluomo della storia dell’arte che, con inimitabile tatto e britannica concretezza, ha profondamente influito sulla riconsiderazione del primo Seicento.

    Partendo a cerchi concentrici dallo studio del prediletto Guercino, Mahon ha saputo proporre in una nuova e più convincente luce la pittura bolognese alle soglie del Seicento, e ha condotto pioneristiche scoperte su Caravaggio e su Nicola Poussin.

    Sir Denis Mahon è stato, sin dall’inizio della sua carriera, il principale promotore in Gran Bretagna della rinascita e dell’interesse per il Barocco italiano e si deve proprio a lui – il più grande storico dell’arte e collezionista della sua epoca – l’indomito impegno nel rendere di dominio pubblico le grandi collezioni statali, nella convinzione che il patrimonio artistico della nazione appartenga ai cittadini che la abitano.

    Accanto a una rosa di dipinti provenienti dalla sua collezione e lasciati ad importanti istituzioni museali alle quali si sentiva più legato, la mostra fa il punto, attraverso una scelta mirata di dipinti, sulle scoperte e gli studi condotti da Mahon sull’arte del Seicento italiano, alla cui rivalutazione in campo internazionale ha contribuito in maniera decisiva fin dagli anni trenta del secolo scorso. In molti casi, gli studi di Sir Denis Mahon hanno consentito l’attribuzione dei dipinti e spiegato il “modus operandi” di alcuni artisti, fra cui Caravaggio, e che oggi costituiscono il patrimonio culturale dei più importanti musei del mondo.

    Parallelamente cresceva il suo interesse per la pittura del Caravaggio, di cui la mostra presenta un nucleo di importanti capolavori, nell’intento di chiarire la posizione critica di Mahon accanto a quella del maggiore ‘specialista’ italiano dell’artista, Roberto Longhi.

    Il catalogo della mostra, infatti, include diverse testimonianze e studi sull’opera di Caravaggio oltre che un saggio di Mina Gregori sul rapporto fra Mahon e Longhi e sul folto carteggio fra i due storici dell’arte, entrambi accesi sostenitori del barocco.

    Appassionato dell’Italia, Mahon riversò il suo interesse anche su altri artisti, come Nicola Poussin, che in Italia avevano lavorato e che la mostra esemplificherà attraverso dipinti prestati da imponenti musei italiani e stranieri, per terminare sui quadri della sua collezione personale, incentrata sui protagonisti del Seicento italiano.

    In mostra saranno presenti circa 40 capolavori assoluti: non solo infatti quelli appartenuti alla sua collezione, i cui dipinti sono in parte alla Pinacoteca Nazionale di Bologna, ma anche alcuni capolavori, come quelli di Poussin, Guercino e Carracci, provenienti dall’Hermitage Museum di San Pietroburgo.

    La mostra intende valorizzare, inoltre, un nutrito gruppo di opere provenienti dalle aree del terremoto emiliano del 2012 e che furono conosciute ed amate da Sir Denis Mahon negli anni dei suoi viaggi in Italia. Su alcune di queste si intende mettere in evidenza, oltre lo straordinario valore culturale, la storia della messa in sicurezza di tali capolavori e del loro recupero tramite l’opera di tanti artigiani della cultura che in questi anni hanno incessantemente e silenziosamente lavorato.

    www.daguercinoacaravaggio.it
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    Senza lasciare grosse tracce nell'immaginario comune, eppure dotato di una personalità dirompente e di una freschezza compositiva che avrebbero meritato tutt'altro trattamento, tre anni fa “Dogs In Spirit”, per quanto manifesto ancora incostante e senz'altro perfettibile, metteva in mostra il talento obliquo ed erudito di Cécile Meyer, polistrumentista svizzera dal lirismo intricato e dalla sfuggente sensibilità, calatasi nei panni della misteriosa Anna Aaron. Riferimenti biblici, simbologie complesse, una sensibilità in grado di passare con disinvoltura da partiture in odore di musica neoclassica all'intero scibile del rock al femminile, dal cantautorato pop al blues e all'avanguardia, il tutto affidato alle altrettanto suggestive cure canore della firmataria: questo e molto altro ancora animava il primo disco, e questo e molto altro ancora finisce per informare anche la seconda fatica sulla lunga distanza della musicista di Basilea, tutt'altro che propensa ad addolcire i toni della propria musica.
    Anzi, se possibile la complica e la imbroglia ancora ulteriormente, dimostrandosi caparbia e capace di tenere testa alla sua grande ambizione. Trasportando il contesto tematico in una più stringente attualità, indagando il labirintico rapporto tra uomo e tecnologia, mai veramente risolto o risolvibile (l'ispirazione deriva da “Neuromancer” di William Gibson, testo fondamentale della letteratura cyberpunk), la cantautrice scava ancor più in profondità nei meandri della propria introspezione e della psiche umana, ideando una sorta di reticolo di diffrazione in cui melodie e arrangiamenti si scombinano e si ricombinano in continuazione, rendendo di fatto impossibile rilevare una parvenza di univocità anche soltanto nel singolo brano. Lucida tridimensionalità.

    Nonostante ciò, non vi è alcuna traccia di dispersività, l'effetto pot-pourri implicito in molte operazioni del genere viene sventato da una consapevolezza compositiva e da una produzione accurata (alla regia David Kosten, già al lavoro con Bat For Lashes ed Everything Everything), che custodiscono, per quanto paradossale possa sembrare, la preziosa mutevolezza di ciascuna componente. Tutt'altro che incentrato sul pianoforte come poteva essere il precedente, e con l'ingresso in scena di interessanti prurigini elettroniche, “Neuro” si palesa come fervido manuale sulle potenzialità di manipolazione della forma-canzone, un'analisi approfondita sulle sue infinite possibilità comunicative, affrontate senza timore o fobia alcuna, ma anzi costantemente aggredite, avvoltolate, come se non fosse mai abbastanza.
    E davvero sembra non averne mai abbastanza, Anna: a costo di strafare, di sporcare brani capaci di reggersi in piedi anche con una maggiore esilità, non arretra di un passo rispetto alle proprie idee, le lascia fiorire essendo disposta a perdere momentaneamente il controllo. Se quindi indovina alla perfezione la psicosi danzereccia di “Totemheart” (contemporaneamente momento più alto e più lineare nell'insieme, considerando pure l'inserto spoken-word), con tanto di testo che approfondisce il versante “mistico” della sua iconografia lirica, altrove la ricchezza negli arrangiamenti non ripaga con gli stessi risultati. Le strutture sono sempre fastose e imprevedibili, dotte e spiazzanti, ma ogni tanto l'equilibrio si sposta verso una complicazione non sempre decifrabile, quasi lo specchio di quelle nevrosi contenute sin dal titolo (“Doubleclub”, “Case”).

    “Simstim”, la spiazzante ballata invernale posta a chiusura, con il suo manto pianistico fa leva su quel sentimento blues che ha costituito parte della fortuna di Nadine Shah, accentuando però la componente più spiccatamente drammatica, in passaggi che vedono la Meyer incrementare il carico complessivo di inquietudine. Ma niente sono questi ultimi in confronto alle stralunate bizzarrie sintetiche di “Heathen”, con il beat a simulare pulsazioni in scia techno, o al crescendo inatteso di “Linda”, risolto con apparente semplicità ma figlio di un'espressività davvero complessa nella concezione: sono soltanto alcuni tra i migliori frammenti di un portentoso caleidoscopio, che corre consapevolmente il rischio di accecare con le sue molteplici combinazioni cromatiche.
    La rabbia di una Polly Jean Harvey, tra oscurità e redenzione, di “Neurohunger”, i cambi di registro in rincorsa di “Labyrinth”, giocati su un bel tappeto percussivo, le abrasioni chitarristiche di una “Stellarling”, sfruttata sapientemente come singolo di lancio, nella sua foga bluesy in cerca di preziose derive mitteleuropee; ovunque si vada a pescare, a risaltare sono sempre le potentissime aspirazioni di Cécile, cosciente che osare sia l'unica via per non lasciarsi fregare. Il terzo album risolverà, si spera, gli ultimi dubbi rimasti.



    Tracklist

    Off
    Case
    Stellarling
    Girl
    Linda
    Labyrinth
    Sutekina
    Neurohunger
    Doubleclub
    Heathen
    Totemheart
    Simstim

    ondarock



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    Tanti applausi per "Due giorni, una notte" dei fratelli belgi che racconta il dramma di una donna licenziata. Grande protagonista è Marion Cotillard: "Sono una loro fan, in questa storia si riconosce lo spiccato senso di umanità che da sempre caratterizza il loro cinema"

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    CANNES - Con il suo volto stanco, i capelli non lavati, le magliette ordinarie e le pastiglie di Xanax nella borsa Sandra - interpretata da una maiuscola Marion Cotillard, che con questo ruolo si candida al premio come migliore attrice - parla del presente di molti lavoratori. Impiegati precari, madri nel difficile equilibrismo tra casa e ufficio, operai in cassa integrazione, immigrati terrorizzati dall'essere rispediti indietro, all'inferno. I fratelli Luc e Jean Pierre Dardenne, già Palma d'oro a Cannes per Rosetta e L'enfant, presentano il loro film più universale e più trasversale, in cui lo spettatore può rispecchiarsi o riconoscere qualcuno a lui molto vicino. Due giorni, una notte, lungamente applaudito alla proiezione per la stampa, racconta il weekend di un'operaia che, dopo essere rientrata da un periodo di congedo per depressione, viene licenziata dopo un referendum tra i suoi colleghi costretti a scegliere dal datore di lavoro tra un bonus di 1.000 euro per ciascuno di loro oppure il posto di Sandra in fabbrica. Dopo aver ottenuto una nuova votazione a scrutinio segreto, questa donna fragile ma tenace busserà alla porta di quasi tutti i colleghi disturbando i loro pranzi domenicali, interrompendo allenamenti di calcetto, il fai da te della domenica, creando tensioni tra mogli e mariti, tra padri e figli, per chiedere di rinunciare al loro premio e permetterle di conservare il suo posto.

    "L'idea per il film viene da storie accadute dove abitiamo, in Belgio, ma anche negli Stati Uniti, in Italia. Per colpa della crisi economica il cinismo dei padroni ha costretto i lavoratori uno contro l'altro", racconta Luc Dardenne, il più giovane dei due registi belgi da sempre impegnati in un cinema sociale che mette al centro "storie di persone comuni che di comune non hanno nulla".

    A dare corpo, voce realismo e profonda umanità al personaggio di Sandra è l'attrice premio Oscar Marion Cotillard, prima star internazionale con cui si trovano a collaborare i fratelli belgi: "Avevamo voglia di lavorare con Marion che è un'attrice straordinaria", confessa Jean Pierre. "Il nostro è stato un colpo di fulmine cinematografico fin dal primo incontro. Dovevamo realizzare insieme un altro progetto che non è partito e quando abbiamo scritto questo ruolo lo abbiamo pensato appositamente per lei, sperando che accettasse".

    "Sono una loro grande fan", contraccambia Marion, "e no, non sono stata sorpresa dal loro modo di lavorare così preciso e meticoloso perché vedendo i loro film - e se li conosci un po' - appare subito chiaro l'incredibile lavoro che c'è dietro le loro opere. Il personaggio di Sandra mi è entrato dentro perché anche io ho le mie paure, le mie esitazioni di fronte a certe situazioni. Ad essere sincera, al posto suo non so se avrei avuto la sua stessa forza, nonostante gli amici, i figli, il marito che la ama incondizionatamente e che la spinge a rivelare l'energia che è dentro di lei".

    Nel ruolo del marito c'è Fabrizio Rongione, e rivela che si è ispirato agli uomini della sua famiglia per ricreare quest'uomo pieno di amore, di comprensione e di sostegno. Rongione è uno degli attori feticcio dei Dardenne, già nel cast del film del '99 Rosetta, storia di una giovane donna che lotta per trovare un posto di lavoro. "Rispetto ai tempi di Rosetta il cinismo è cresciuto e la solidarietà è diventata sempre più difficile. Il cuore del film è vedere come Sandra, con l'aiuto del marito e grazie alla rete solidale che si instaura con alcuni dei suoi colleghi, riesce a crescere, a superare le sue paure, ad aprirsi agli altri".

    "La nostra speranza è che gli spettatori che andranno a vedere il film si pongano la domanda: io cosa farei al posto di Sandra o dei suoi colleghi?", racconta Luc, "forse è un po' ingenuo crederlo, ma se con il nostro film riuscissimo, nel nostro piccolo, a ricreare un sentimento di solidarietà sarebbe una salutarte contrapposizione all'individualismo forsennato e all'indifferenza nella quale spesso finiamo per crogiolarci". Il film uscirà nei cinema italiani in autunno.

    repubblica.it
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    L’esposizione “Klimt. Alle origini di un mito”, realizzata in collaborazione con il Museo Belvedere di Vienna (Österreichische Galerie Belvedere), promossa dal Comune di Milano-Cultura, organizzata e prodotta da Palazzo Reale, 24 ORE Cultura – Gruppo 24 ORE e Arthemisia Group, è curata da Alfred Weidinger, affermato studioso di Klimt e vice direttore del Belvedere e si avvale della collaborazione per l’Italia della studiosa klimtiana Eva di Stefano.
    Venti gli oli di Gustav Klimt che il pubblico potrà ammirare dal 12 marzo al 13 luglio 2014 a Palazzo Reale. Una raccolta straordinaria se si pensa che sono 100 al mondo i dipinti e gli affreschi del maestro di cui si ha notizia e che il Museo Belvedere, in occasione del 150° anniversario della nascita di Klimt, ha esposto un totale di 40 oli nella grande mostra del 2012 che dava conto della formazione, dello sviluppo e dell’apice della carriera artistica del genio austriaco.
    La riproduzione dell’originale del “Fregio di Beethoven” – esposto nel 1902 a Vienna all’interno del Palazzo della Secessione costruito nel 1897 – occuperà un’intera sala in mostra e “immergerà” il visitatore nell’opera d’arte totale, massima aspirazione degli artisti della Secessione Viennese, sulle note della Nona sinfonia di Beethoven. Tutto il percorso espositivo si avvarrà di un allestimento che integra tematiche e opere nel contesto di arte totale proprio della movimento.
    La mostra si propone di indagare i rapporti familiari e affettivi di Klimt, esplorando gli inizi della sua carriera alla Scuola di Arti Applicate di Vienna e la sua grande passione per il teatro e la musica attraverso l’esposizione di opere provenienti anche da altri importanti musei, tra cui diversi capolavori come Adamo ed Eva , Salomè, Girasole e Acqua in movimento.
    “Nell’ambito di un progetto culturale che vede Milano al centro del panorama dei grandi eventi espositivi internazionali, questa mostra rappresenta un capitolo di notevole qualità e importante significato – ha dichiarato l’Assessore alla Cultura Filippo Del Corno –. I capolavori in mostra, infatti illustrano compiutamente diverse fasi della vita di Klimt e, accompagnati da una ricca documentazione, ricostruiscono il contesto di formazione della personalità dell’artista fin dalle sue prime esperienze giovanili”.
    Particolare attenzione sarà dedicata all’opera giovanile di Klimt, alla sua formazione presso la Kunstgewerbeschule viennese e ai suoi inizi come decoratore dei monumentali edifici di rappresentanza lungo il Ring, sulla scia di Hans Makart, indispensabili presupposti della sua evoluzione in direzione della modernità perché, come scrive in catalogo Agnes Husslein-Arco, direttore del Belvedere: “Pochi sanno che la Künstler-Compagnie, la Compagnia degli Artisti costituita nel 1881 da Gustav Klimt, da Franz Matsch (compagno di Klimt alla Kunstgewerbeschule dell’Österreichisches Museumfür Kunst und Industrie) e da Ernst Klimt, fratello minore di Gustav, fu attiva per quasi dodici anni, distinguendosi soprattutto nella decorazione pittorica di edifici pubblici, specialmente teatri. A tali incarichi si dovette, in fondo, anche il successo di questa società di pittori, e in particolare di Gustav Klimt, sulla scena artistica viennese”.
    “Klimt. Alle origini di mito” accompagna così il visitatore in un percorso alla scoperta di un artista divenuto mito attraverso alcuni dei capolavori più noti del maestro austriaco che, ancora oggi, incantano e che in mostra i visitatori possono ammirare: da Adamo ed Eva alla Famiglia, dal Girasole a Fuochi Fatui, da Acqua in movimento a Salomè senza tralasciare i paesaggi evocativi come Dopo la pioggia o Mucche nella stalla e i grandi ritratti femminili.
    La mostra si apre con il contesto famigliare: accanto a opere dei fratelli Ernst e Georg, sono esposti anche ritratti giovanili fatti da Gustav a membri della sua famiglia, nonché fotografie originali provenienti dal lascito dell’artista.
    La seconda parte della mostra è dedicata all’apprendistato dei fratelli Klimt alla Scuola d’Arte Viennese, nell’ambito della quale fondarono, insieme a Franz Matsch, la cosiddetta Künstler-Compagnie (Compagnia degli Artisti): le opere presenti illustrano pertanto la formazione di Klimt pittore storicista e il suo rapporto con l’arte di Hans Makart. Ampio spazio sarà riservato all’epoca della Künstler-Compagnie, fino alla morte di Ernst Klimt nel 1891. Grazie soprattutto a bozzetti di grandi dipinti decorativi per teatri e musei, si potrà capire perché i tre artisti s’imposero quali successori di Hans Makart, allontanandosi tuttavia dal suo stile neo-barocco.
    La crisi klimtiana dopo lo scioglimento della Künstler-Compagnie è contestualizzata nella crisi dell’arte viennese stessa, che sfocerà nella fondazione della Secessione. Qui una scelta di opere della prima fase della Secessione diventa dunque testimonianza del rifiuto definitivo della tradizione storicistica e del successivo passaggio all’avanguardia internazionale.
    Due sale saranno dedicate al ritratto e al paesaggio, generi prediletti da Klimt dalla fondazione della Secessione. Tre importanti ritratti femminili - Signora davanti al caminetto e i due Ritratto femminile - eseguiti da Gustav Klimt tra il 1894 e il 1898, approfondiscono il primo tema, illustrando, al tempo stesso, il particolare rapporto dell’artista col genere femminile. In esposizione anche alcune lettere d’amore scritte a Emilie Flöge, scoperte in tempi recenti, che gettano luce sull’intimità della sua vita amorosa.
    Nella sala dei paesaggi, oltre a due importanti dipinti di Klimt – Dopo la pioggia e Mucche nella stalla - è offerta una panoramica sul paesaggismo austriaco del tempo, dalle prime tendenze impressionistiche di fine Ottocento ai dipinti secessionisti di Carl Moll e di Koloman Moser.
    Altri due dipinti, Fuochi fatui e La famiglia, illustreranno la pittura simbolista di Klimt, sezione che conclude l’esposizione. Il catalogo è edito da 24 ORE Cultura.

    Informazioni Evento:

    Data Inizio:12 marzo 2014
    Data Fine: 13 luglio 2014
    Costo del biglietto: 11,00 euro
    Prenotazione: Nessuna
    Luogo: Milano, Palazzo Reale
    Orario: lunedì 14.30 – 19.30 martedì, mercoledì, venerdì e domenica 9.30 – 19.30 giovedì e sabato 9.30 – 22.30
    Telefono: 02 0202
    E-mail: [email protected]

    Dove:

    Palazzo Reale
    Città: Milano
    Indirizzo: Piazza del Duomo, 12
    Provincia: MI
    Regione: Lombardia

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    beniculturali
  12. .

    Pieter Brueghel il Vecchio (Pieter Bruegel the Elder) - Parabola dei ciechi

    1868 - tempera su tela - 86x154 cm - Museo di Capodimonte, Napoli


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  13. .
    A quattrocento anni dalla morte, il mistero intorno a questo artista straordinariamente moderno (e che non ebbe vita facile) pone nuovi interrogativi. Le radici dell’arte contemporanea, da Picasso a Kandinski, hanno guardato a lui. La Spagna, intanto, lo celebra con una serie di grandi mostre, da Toledo a Madrid

    Perché quel Cristo si eleva in una torsione bizzarra che sembra sfidare secoli di iconografia sacra? E perché quel san Giovanni spicca in primo piano, monumentale, vestito di una tunica scomposta, alzando le braccia al cielo al pari delle altre figure sullo sfondo, senza veli, in una danza dionisiaca? Perché insomma El Greco sembra oggi così moderno? Così vicino ai giorni nostri, perfettamente a suo agio nel gusto pop con i suoi colori fortissimi, acidi; così aderente a un modo di pensare che, nel secolo scorso, ha infranto regole su regole, arrivando all’informale?
    Ce lo chiediamo oggi, a quattrocento anni dalla morte, mentre uno strano destino si va via via delineando per questo pittore che rappresenta uno dei misteri più fitti della storia dell’arte. Nato a Candia (Creta) nel 1541, Dominikos Theotokopoulos è stato probabilmente il primo vero artista «europeo»: sin da bambino si forma alla Scuola cretese, un movimento pittorico post bizantino che predilige figure allungate e sottili, mani eleganti, cura dei dettagli, particolari inediti nell’iconografia sacra. Poi si sposta e va a Venezia (abbandonando moglie e figlio) e si incanta davanti ai volti di Tiziano, Veronese, Tintoretto. I suoi dipinti si addolciscono, i colori diventano più accesi. Infine, va in Spagna, elegge Toledo «città adottiva» e qui resterà fino alla morte, nel 1614.
    Strano destino, si diceva. Sì perché mentre con il suo tempo El Greco ingaggiò spesso furibonde lotte per affermare una certa indipendenza artistica, la sua vera riscoperta si è avuta con la modernità, a cavallo tra Otto e Novecento. No, non ebbe vita facile: nonostante fosse amico di personalità sofisticate come il poeta Luis de Góngora (il quale, sull’epitaffio del pittore, scrisse qualcosa come: «Infuse il naturale nell’arte/ e l’arte nella ricerca») la sua arte era vista come troppo «fuori dagli schemi» per una committenza in gran parte formata da chierici e aristocratici vicini alle alte sfere ecclesiastiche.
    Per dire, nel 1581, Filippo II fece rimuovere una pala di El Greco dall’Escorial perché proprio non riusciva a raccogliersi in preghiera davanti a quelle figure inquietanti, forti, latrici di messaggi profondi e spesso indicibili.
    Lo hanno amato e odiato con pari impeto. Giambattista Marino lo definiva «uno sciocco pintor», le cui opere meriterebbero «aqua e foco», ma Théophile Gautier, in un viaggio in Spagna alla metà del XIX secolo, parlava di «follia geniale». Così non stupisce che sia stato proprio il più anticonformista dei francesi ottocenteschi, Édouard Manet, a imporlo come esempio di straordinaria modernità in Europa. In Francia, a metà ’800, al Louvre era stata allestita la «Galérie Espagnole», mostra che fu una sorta di rilancio per il cretese. Però bisognerà aspettare ancora.
    Aspettare quella straordinaria vitalità edipica che, nell’arte e non solo, portò a un vero e proprio parricidio nei confronti delle tradizioni. Picasso che riscopriva l’arte africana, Kandinski che prendeva a indagare le origini figurative della sua tradizione. Fu così che questo artista così puro, incorrotto, libero dagli schemi, venne preso a modello. Una mostra allestita a Düsseldorf nel 2012, dal titolo «El Greco e il Modernismo» ha fatto luce su questo tema, composto di assonanze, rimandi, echi ben percepibili. Pare che Picasso abbia dipinto Les demoiselles d’Avignon dopo aver visto L’apertura del quinto sigillo di El Greco, un’apoteosi panica del sacro (contrapposizione voluta, cercata, rimarcata); La terribile Deposizione dalla Croce di Max Beckmann esalta queste figure emaciate, stravolte; persino in certi cupi ritratti di Kokoschka si ritrovano gli incubi del cretese. Ma furono davvero incubi?
    O forse furono più opportunamente suggestioni culturali, etiche e religiose che gli venivano dal suo tempo, dal Paese che aveva scelto, persino dalla città che aveva eletto come sua (Toledo, il cuore della Santa Inquisizione). Non lo sappiamo e forse non è nemmeno giusto chiederselo. Di certo, nelle grandi mostre che la Spagna propone in questo 2014 dedicato al El Greco, da Toledo a Madrid, avremo modo di studiarlo. O, meglio, di sentirlo.

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    El Greco, La Spoliazione di Cristo, 1577 (part.)

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    El Greco, la Trinità, 1577-1578

    corriere.it
  14. .
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    Joan Wasser lo aveva dichiarato agli esordi, nel soul aveva trovato l’energia che la musica punk non riusciva più a comunicarle, la viscerale eleganza della black music metteva in connesione i suoi studi classici e la sua rabbia giovanile. Spesso si è caustici e poco inclini all’indulgenza nei confronti dei nostri idoli, e sono sicuro che molti troveranno “The Classic” un tradimento delle promesse stilistiche della musicista. Quello che non riusciamo a perdonare a un’artista è il suo desiderio di essere felici: sì, Joan Wasser è felice, e non ha alcun timore di raccontarcelo.
    La violinista e cantante americana, in verità, non ha mai celato le sue più profonde emozioni: né quando coi Dambuilders provava l’ebbrezza del successo, né quando la morte del suo compagno Jeff Buckley e della madre avevano messo a dura prova la sua voglia di vivere.

    “The Classic” è un album di canzoni dal fascino non sempre immediato. L’apertura di “Witness” non è casuale, in essa è racchiusa la nuova attitudine di Joan As Police Woman: un classic soul proiettato nel presente con tutte le incertezze e le tensioni contemporanee, primo frutto di una rinascita spirituale che fa seguito a una profonda depressione che sembrava averla inghiottita, e che ha superato grazie ai consigli di alcuni amici buddisti.
    La presenza di Joseph Arthur e di Reggie Watts per il pregevole doo-wop nella title track rafforzano questo stato di stupore e curiosità per le diversità culturali, ed è lo stesso palpito che la spinge a mettere insieme organo, fiati e un riff dondolante nella splendida “Holy City”, per raccontarci il suo viaggio in Israele e le potenti sensazioni che ha vissuto al muro del pianto osservando l’estasi della fede.

    Senza dubbio quando le atmosfere sono cupe e sofferte si avverte ancora quella sublime malinconia che aveva reso il suo mix di soul, funky, folk e rock cosi personale e coinvolgente. Scritta subito dopo “The Deep Field”, “Stay” è ricca di quel pathos e di quel tormento che animava il precedente album, lo stesso senso di disillusione e di sconfitta psicologica messo in scena in una delle rappresentazioni più dolorose dell’artista americana, ovvero quella “New Year’s Day” dall’incedere ritmico criptico e dalle taglienti note di chitarra, alfine inghiottite dal funesto arrangiamento d’archi, l’esegesi dark-soul più stimolante che possiate ascoltare.
    Trovo comunque buffo che, mentre la riproduzione spensierata e calligrafica dell’ultimo album di Sharon Jones sia accolta come l’ennesimo trionfo del soul, sulla definitiva metamorfosi di Joan As Police Woman giungano critiche di retro-soul. Ma credo che basti ascoltare la frizzante e irriverente “Shame” (nella quale Joan si paragona al Cristo) per aver conferma di un talento capace di concentrare in pochi minuti tutta l’effervescenza, la versatilità e la raffinata intelligenza di Al Green e Minnie Riperton: è come se Otis Redding, gli Chic e Amy Winehouse suonassero insieme sullo stesso palco, puro soul-power.

    Forse è lecito chiedersi se non avessimo frainteso, se i sogni di Joan non fossero meno ambiziosi e più umani, ovvero lasciarsi dietro il dolore per vivere le emozioni senza rimpianti: “Non voglio essere nostalgica per qualcosa che non è mai stato… non voglio vedere quegli occhi e non voglio fare quella corsa… non ricorderò la prima volta perché tornare lì e sentire che non mi sentivo cosi bene e che non era speciale, no non è mai stato così speciale” canta in “Good Togheter”, mentre un ricco flusso lirico soul si infrange contro un muro di chitarre noise e un organo scivola in sottofondo malizioso e insolente. La Wasser è tornata a parlare di affari di cuore e di piccole sensazioni quotidiane, lo fa con classe e malcelato romanticismo nella dolce “Get Direct”, destinata a essere uno dei suoi live-act più coinvolgenti, o con macabro sarcasmo funky in “What Would You Do”, dove getta un’ancora di salvezza a un amico in difficoltà senza ricorrere alla lusinga e alla facile comprensione.

    “The Classic” è l’album più variopinto e solare di Joan As Police Woman. La decisione di approcciare un sound più diretto e curato è la novità più evidente del suo nuovo progetto; la delicata indolenza del reggae-soul di “Ask Me” non avrebbe mai avuto lo stesso candore prima della svolta, ora la qualità del suono è brillante e la voce si è arricchita di sfumature pop più decise. Certamente il ricordo della poco convincente performance a Giffoni Valle Piana come apripista di Patti Smith, causata da un’invasione di moscerini sul palco, mi aveva posto dei dubbi e delle perplessità, ma aveva anche stimolato la mia curiosità per questa donna dal complesso stato emotivo e artistico.
    La chiave di lettura per questo nuovo progetto può solo scaturire da un’analisi attenta della sua evoluzione creativa: “The Classic” è un altro tassello di una discografia che resta stuzzicante ma ora anche più ricca, c’è una volontà di rimettersi in gioco e di abbandonare le certezze che solo i più distratti potranno cogliere come una parziale sconfitta. Questo è un album di potenziale easy listening che in verità chiede attenzione per essere veramente apprezzato.

    Tracklist

    Witness
    Holy City
    The Classic
    Good Together
    Get Direct
    What Would You Do
    New Year’s Day
    Shame
    Stay
    Ask Me

    ondarock



  15. .
    "Pontormo e Rosso Fiorentino", la mostra a Palazzo Strozzi dall'8 marzo al 20 luglio 2014. Un appuntamento davvero prezioso, che arricchisce ancora di più la sterminata e qualitativamente superiore offerta artistica di Firenze. Arriveranno migliaia di visitatori per ammirare gli stili diversi e raffinati dei due artisti. Due tra i pittori piu' anticonformisti e spregiudicati della stagione del Cinquecento italiano che Giorgio Vasari chiama 'maniera moderna'. Una rassegna che rappresenta anche un viaggio attraverso le vite parallele di questi artisti "gemelli diversi" che alla fine del loro percorso arriveranno a un riavvicinamento.

    La rassegna, che comprende piu' di 80 opere, offre al visitatore la possibilita' di ammirare circa 50 dipinti (tavole, tele ed affreschi staccati) dei due artisti, un insieme che rappresenta il 70% della loro produzione.
    Inoltre disegni, arazzi e incisioni, affiancati da tavole dei loro maestri: Andrea del Sarto e Fra' Bartolomeo.

    Curata da Antonio Natali, direttore della Galleria degli Uffizi e da Carlo Falciani, docente di storia dell'arte, la mostra e' promossa e organizzata da Fondazione Palazzo Strozzi, Ministero per i Beni e le Attivita'
    Culturali, Soprintendenza PSAE e per il Polo Museale della citta' di Firenze, con Comune di Firenze, Provincia di Firenze, Camera di Commercio di Firenze, Associazione Partners Palazzo Strozzi e Regione Toscana, con il contributo di Ente Cassa di Risparmio di Firenze.

    SCONTI PER CHI ARRIVA IN TRENO - Trenitalia offre agevolazioni ai suoi clienti in occasione della mostra “Pontormo e Rosso Fiorentino. Divergenti vie della "maniera", in programma a Palazzo Strozzi dall’8 marzo al 20 luglio 2014. Coloro che raggiungeranno Firenze con Trenitalia e i titolari CartaFreccia, la carta fedeltà gratuita di Trenitalia, potranno visitare la mostra beneficiando del 20% di sconto sul biglietto di ingresso. Il sabato, inoltre, potranno usufruire della speciale promozione 2x1 (due biglietti di ingresso al prezzo di uno) esibendo la propria tessera o il biglietto del viaggio al botteghino del museo.

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    lanazione.it
1189 replies since 31/7/2009
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