Francis Bacon - Vita e Opere

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    La vita e l'arte.

    Infanzia e adolescenza

    Cosa c’entra il cinema di Luis Buñuel con l’Orestea di Eschilo e una foto di cronaca di Goebbels con Velàsquez? Sono solo frammenti del patrimonio vasto quanto denso da cui Francis Bacon attingeva per dare origine a quelle immagini in cui repulsione, attrazione, ribrezzo e sorpresa erano solo una parte delle reazioni che gli venivano dal pubblico. Ma, come avrebbe spiegato il suo amico e scrittore surrealista Michel leiris, “intensamente viventi, i personaggi di Bacon lasciano a volte vedere i propri denti, pezzetti di scheletro, stalattiti e stalagmiti rocciose che spuntano davanti alla caverna della bocca … perché, per conoscerla meglio e gustarne tutte le bellezze, non si potrebbe esplorare la vita con accanimento senza arrivare a mettere a nudo – almeno a sprazzi – l’orrore che si nasconde dietro i paludamenti più suntuosi” (1966)

    Francis Bacon è nato il 28 ottobre del 1909 in una clinica nel cuore della vecchia Dublino georgiana, al 63 di Lower Baggot Street. Suo padre Anthony Edward Mortimer Bacon, detto Eddie, e sua madre Christina Winifred Loxley Firth, Winnie, non avevano sangue irlandese, erano entrambi di origine inglese, avevano già un figlio di quattro anni di nome Harley e ne avrebbero avuti altri tre dopo Francis, due femmine, Ianthe e Winifred, e un altro maschio, Edward. Vivevano a Cannycorurt House, la prima delle grandi case di campagna che avrebbero affittato negli anni a venire.
    Nelle sue diciotto stanze, oltre alla famiglia Bacon, Cannycourt House accoglieva cinque domestici al loro servizio e una ventina di persone tra stallieri e lavoranti. Era un edificio largo, con la facciata piatta e vaste scuderie, situato vicino al villaggio di Kilcullen, nella contea di Kildare, non lontano da Dublino. Ma per il padre di Francis Bacon con il maggior pregio della casa colonica era la sua vicinanza a Curragh, una delle maggiori postazioni dell’Armata Britannica e, proprio in quanto tale, un centro di notevole importanza per l’allevamento dei cavalli e il loro allenamento.
    Eddie Bacon veniva da una famiglia che vantava nobili e gloriose origini, rivendicando anche una parentela con il filosofo omonimo del futuro pittore, ed era approdato in Irlanda dopo avere girato molto come militare.
    Giovanissimo si era arruolato nella Fanteria leggera inglese Durham ed era stato destinato in Irlanda, dove aveva sviluppato una passione per l’equitazione e la caccia che non lo avrebbe più abbandonato. Divenuto capitano, nel 1902 aveva partecipato agli ultimi scontri occorsi durante la guerra degli inglesi con i boeri in Sud Africa e addirittura si era guadagnato un’onorificenza. Una volta tornato in Inghilterra, era stato destinato al reggimento in deposito di Newcastle-on-Tyne dove aveva incontrato, e poi sposato, Winnie Firth.
    Francis Bacon racconta che suo padre si decise a considerare la sua futura madre, di venti anni più giovane, come possibile sposa dopo avere vagliato a fondo l’eredità che gli sarebbe venuta dagli affari della famiglia della fanciulla, e soprattutto dopo avere subito il rifiuto da parte di un’altra giovane ancora più abbiente. Nonostante la decisa opposizione della famiglia Firth, nel 1903 a Londra la diciannovenne Winnie sposò Eddie Bacon. Anche se continuava a riferirsi a se stesso come “capitano Bacon”, a quel tempo Eddie aveva trentatré anni e si era da poco congedato dall’esercito inglese con il grado onorario di Maggiore. Il vivo interesse che aveva mantenuto per i cavalli e gli sport all’aperto non era diminuito dopo il congedo; quindi, facilitato dalla considerevole dote della sua sposa, aveva deciso di intraprendere il mestiere di allenatore di cavalli da corsa, ben conscio che in Irlanda i costi per l’impresa sarebbero stati inferiori rispetto a quelli dell’Inghilterra. Cannycourt House, con le sue ampie scuderie, era perfetta a tal fine e quando Francis era ancora piccolo, pare fosse governata da suo padre con un rigore quasi militaresco: gli orari erano stabiliti con la massima rigidità e l’autodisciplina, la puntualità e la routine erano riconosciuti dal capitano Bacon come principi indiscutibili per la casa, dove non regnava un’atmosfera particolarmente allegra. I bambini erano tenuti sempre in disparte e raramente vedevano i genitori, eccetto che per una mezz’ora dopo il tè delle cinque e, solo occasionalmente, per la colazione domenicale. A casa il capitano Bacon era conosciuto e temuto per i suoi scoppi d’ira, provocati spesso da banali incidenti come l’avere riscontrato che i propri stivali non erano lucidati come avrebbe voluto. Francis Bacon non è il solo a ricordare che suo padre era iracondo, litigioso e tirannico nel governare la casa. Il risultato era che sistematicamente rompeva su nascere qualsiasi amicizia, un serio problema per chi come lui intendeva affermarsi nella società mondana che caratterizzava il mondo dell’equitazione. Inoltre, anche se in gioventù aveva spiccato per la propria eleganza, le fotografie di Eddie Bacon scattate durante la mezza età raffigurano un uomo ormai eccessivamente irrobustito, con uno sguardo accigliato e baffi militareschi; le uniche somiglianze con suo figlio si colgono negli avambracci forti incrociati sul busto e nelle mani, insolitamente larghe e vistose.
    Insomma, nelle riflessioni sulla propria infanzia, Francis Bacon non avrebbe riportato che commenti negativi sul padre. Lo considerava sì un uomo intelligente, ma riteneva che non fosse mai riuscito a sviluppare appieno le proprie capacità e che avesse sprecato tutte le opportunità, compresa quella che gli era venuta con la ricca dote della moglie.
    La madre di Francis Bacon, Winnie Firth, veniva da un ambiente molto diverso da quello altezzoso della famiglia del marito. Il nonno di Winnie, Thomas Firth, aveva impiantato, alla metà del XIX secolo, una piccola acciaieria a Sheffield in Inghilterra, che si era accresciuta fino a diventare una delle più grandi aziende del mondo in forniture di pezzi di pistole e una parte sostanziosa delle fortune ricavate dalla famiglia Firth era stata destinata in beneficenza. Il padre di Winnie, non di Francis, era morto piuttosto giovane a causa di un asma cronico, di cui avrebbe sofferto anche Francis; quando era ancora in vita la sua figura era stata del tutto oscurata da quella della moglie, una donna vitale e risoluta che avrebbe poi seguito la figlia in Irlanda, dove non solo si sarebbe sposata altre due volte, ma avrebbe sviluppato uno stretto legame con il nipote Francis. “Io e mia nonna ci dicevamo tutto” (Peppiatt, 1996), ricorda Francis Bacon che era completamente soggiogato dall’eccezionale vitalità di Granny Supple, com’era chiamata la nonna in famiglia. La libertà con cui conduceva la propria vita, intrattenendo rapporti sociali a tutti i livelli, dovevano davvero impressionare Francis, soprattutto in contrapposizione alle costrizioni sociali e al rigore in cui era cresciuto dal padre. Inoltre Granny Supple non aveva simpatia per il capitano Bacon e questo doveva renderla ancora più gradita a Francis. Anche il carattere della madre era per lui solo il pallido riflesso della personalità della nonna. Le foto scattate intorno al periodo del matrimonio con il capitano Bacon, raffigurano Winnie Firth come una giovane donna dai capelli bruni, bella, con il viso largo e i lineamenti ben definiti. Era conosciuta per compostezza e acume; pare che avesse uno sguardo blu ghiaccio, e che talvolta se ne uscisse con affermazioni come: “Se te ne vai per un mese, mia cara, non sorprenderti se al tuo ritorno trovi un’altra donna nel letto di tuo marito” (Peppiatt, 1996). Era una donna pratica, non molto disponibile a mostrare le proprie emozioni e non si turbava affatto quando, in preda a uno dei suoi famosi scoppi d’ira, il marito Eddie si aggirava per la casa che Winnie teneva in perfetto ordine e pulizia. Anche se Francis andava piuttosto d’accordo con la madre, non era meno critico riguardo all’atteggiamento di quest’ultima verso di lui bambino di quando non lo fosse verso i modi censori e rabbiosi del padre. Certamente Francis apprezzava la dolcezza della madre paragonata all’educazione militaresca che intendeva impartirgli il padre, però riteneva che i piaceri della madre avessero sempre la precedenza sui suoi bisogni. I rapporti di Francis con lei sarebbero migliorati solo dopo la morte di Eddie Bacon, avvenuta nel 1937, quando Winnie Firth si trasferì in Sud Africa, dopo essersi risposata.
    L’indifferenza di Eddie Bacon e Winnie Firth verso Francis ancora bambino era sopperita da una persona di cui l’artista da adulto parlò poco ma a cui fu profondamente attaccato. Si tratta della bambinaia di famiglia, Jessie Lightfoot, che aveva trentanove anni quando nacque Francis e che andò a vivere con lui quando decise di tentare di affermarsi come pittore a Londra.
    Per un bambino timido, delicato e sognatore come doveva essere Francis Bacon, Cannycourt House e il mondo della caccia e dell’equitazione, che aveva tanta parte nella vita di famiglia, non costituivano grandi attrattive. A causa dell’asma e degli altri frequenti malanni, Francis fu considerato da subito l’elemento debole della famiglia, il “malaticcio”, come si descrive egli stesso ripensando a quegli anni. Qualsiasi contatto con i cavalli e i cani gli provocava degli attacchi d’asma talmente forti da costringerlo a letto per giorni, impedendogli di frequentare regolarmente la scuola. Per questo a un certo punto i suoi genitori decisero di farlo educare da un sacerdote, forse più interessato ai cavalli che ai classici, che non lasciò alcuna traccia significativa sugli anni della sua formazione. Secondo la più tradizionale consuetudine familiare, poco prima del suo quindicesimo compleanno, Francis Bacon fu mandato in collegio e la scuola fu scelta in base alla vicinanza con la proprietà che i Bacon avevano da poco affittato a Gotherington. Dal 1924 all’aprile del 1926 rimase alla Dean Close School di Cheltenham che, se non ebbe un impatto del tutto positivo sull’adolescente che ricorderà “ho lasciato Dean Close appena prima che chiedessero di togliermi dalla scuola”, sicuramente però la avvio alla propria educazione sentimentale. Dall’età di quindici anni Bacon ebbe la chiara consapevolezza di essere omosessuale, nessuno dei dubbi o tentennamenti tipici dell’adolescenza mai lo allontanò da questa precisa e precocissima coscienza che tanta parte avrebbe avuto nel determinare il resto della sua vita. Tornato in famiglia dopo aver lasciato al Dean Close School, Bacon trovò a casa difficoltà ancora maggiori con quel padre con cui non era mai andato d’accordo. Il ragazzo aveva cominciato a esprimere la volontà di dedicarsi all’arte e questo, per il capitano Bacon, non poteva che significare un futuro di decadenza di costumi e povertà. Peggio di questo per il vecchio Bacon era il fatto che gli era giunta voce che Francis era stato allontanato dalla scuola per i suoi rapporti poco chiari con i coetanei; quindi, se era troppo scioccato per imporsi nel contrastare Francis quando appariva travestito da donna alle feste di famiglia, il giorno in cui sorprese il figlio sedicenne mentre provava la biancheria della madre, decise che ne aveva abbastanza e lo allontanò da casa.

    Edited by Al the Elder - 14/3/2012, 14:34
     
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    Londra, Berlino, Parigi

    Era l’autunno del 1926 e Francis Bacon prese la risoluzione di trasferirsi a Londra, dove vivevano molti dei parenti di sua madre e dove le tre sterline settimanali, che quest’ultima gli passava, gli avrebbero permesso di coprire le spese per i beni di prima necessità.
    Anche se era limitato nelle sue espressioni dalla società del tempo, il circolo londinese degli omosessuali entro il quale Francis Bacon si inserì molto presto, si era allargato. Gli omosessuali erano genericamente ritenuti degli effeminati, portati verso l’arte e all’avanguardia nelle questioni di stile e gusto. Gli esteti ed eccentrici omosessuali che circolavano al principio degli anni Venti a Oxford intorno agli scrittori Harlod Acton e Brian Howard cominciarono ad avere una vasta influenza sugli atteggiamenti artistici e morali del tempo, ma i vecchi pregiudizi erano duri a morire e restava ancora il fatto che in Inghilterra l’omosessualità era un crimine punito severamente e come tale non poteva essere manifestata in piena libertà.
    Poco dopo essere arrivato nella grande città il giovane Bacon Svolse una serie di lavori tra i più bizzarri e disparati (stenografo, commesso-centralinista, domestico-cuoco), che trovò certamente grazie alle conoscenze strette in città; Londra, a lui che era cresciuto nella rigida Irlanda, parve subito un mondo libero e ricco di stimoli di ogni genere.
    Presto però, un viaggio che il padre riteneva dovesse riportare il figlio sulla retta via, gli avrebbe aperto nuovi orizzonti. Harcourt-Smith era uno dei parenti di Winnie Firth, particolarmente apprezzato dal capitano Eddie Bacon per la sua fermezza di carattere e virilità, e proprio in quel periodo era in procinto di partire per un soggiorno di un paio di mesi a Berlino. Il capitano Bacon decise di affidargli il figlio Francis nella speranza che lo facesse desistere da certe inclinazioni.
    Quando Harcourt-Smith e Francis Bacon arrivarono a Berlino nella primavera del 1927 la città presentava forti contrasti tra la ricchezza più sfrenata e la miseria più nera; la Germania si stava ancora riprendendo dall’inflazione galoppante determinata dalle prescrizioni che il trattato di Versailles aveva imposto alla nazione. Il cambio era favorevole agli stranieri, di conseguenza il giovane Francis e suo zio presero alloggio all’Adlon, l’albergo più bello e lussuoso della città, a ridosso di Pariserplatz, famoso per le sue cantine, per aver ospitato Caruso e Rodolfo Valentino e per aver avuto come chef una personalità come Escoffier.
    Berlino fu il luogo della liberazione assoluta per Francis Bacon: “C’era qualcosa di straordinariamente libero e aperto ovunque” disse il pittore. La peculiarità della città in quegli anni erano club e cabaret, piuttosto piccoli, scuri, con un’atmosfera un po’ perversa e decadente; lo zio di Francis, sfortunatamente per il capitano Bacon che gli aveva affidato il figlio confidando in una ipotetica redenzione, non disdegnava rapporti omosessuali e quindi non fece altro che coltivare le inclinazioni del giovane nipote. Ma, oltre all’acquisizione della libertà sessuale, Berlino avrebbe anche avviato il giovane Bacon a nuovi orientamenti culturali. La città infatti era stata trasformata dall’attività del Bauhaus, la scuola d’arte e design che nel giro di una decina d’anni aveva determinato il cambiamento della progettazione delle forme, di un fabbricato industriale come di una tazzina di caffè, e la cui influenza era ben visibile in ogni ambito artistico. Berlino in quegli anni era la capitale del cinema e con buona probabilità fu qui che Bacon vide per la prima volta la città futuristica e gli operai-robot di Metroplis di Fritz Lang e la Corazzata Pot ëmkin di Ejzen štejn, che più tardi egli stesso avrebbe affermato essere stata una vera e propria chiave d’apertura per la propria immaginazione. “Non dimenticare che io vedo tutto”, dirà Bacon nel tentativo di spiegare il proprio lavoro, una volta divenuto artista affermato. A Berlino Francis Bacon visitò anche i grandi musei cittadini e in particolare il Pergamon, le cui opere d’arte classica ebbero un notevole impatto su di lui. Anche se nei successivi racconti Bacon avrebbe ricordato se stesso in quel periodo come un ragazzo tutto preso dai circoli omosessuali e poco dedito ad altri aspetti della vita della città, indubbiamente però la sua sensibilità e ricettività gli permisero di cogliere e fare propri molti degli spunti che Berlino intorno alla fine degli anni Trenta poteva offrire.
    Dopo qualche mese che erano in Germania la relazione di Bacon con lo zio Harcourt-Smith si interruppe. Siccome niente attendeva Francis a Londra, e il fascino delle grandi capitali aveva già incominciato a esercitare su di lui una forte attrazione, l’artista decise di trasferirsi a Parigi.
    Come tutti coloro che avevano degli interessi nel mondo dell’arte, quando Bacon giunse nella capitale francese, nella primavera inoltrata del 1927, era ben conscio della sua preminenza come centro culturale e capitale dello stile; aveva appena diciassette anni e se ancora non gli era del tutto chiaro che sarebbe diventato un pittore, certamente però sapeva di volersi dedicare a un’attività che gli desse la possibilità di esprimersi in maniera creativa. Dopo la severità architettonica di Berlino, l’eleganza e la vitalità di Parigi impressionarono Bacon al punto da indurlo a visitare regolarmente la città durante il corso di tutta la vita e a trasferirvisi stabilmente per un periodo.
    Il disinteresse che Francis Bacon aveva sempre manifestato per l’istruzione e la sporadicità con cui aveva frequentato la scuola avevano fatto sì che non conoscesse alcuna lingua oltre l’inglese e se voleva davvero inserirsi nella vita culturale parigina sapeva di dover imparare il francese. Aveva bisogno di un buon insegnante di lingua e dopo aver provato un paio di alberghi economici nel centro della capitale, aveva realizzato di aver anche bisogno di un posto migliore dove stare. Appena giunto a Parigi, cominciò a visitare le gallerie d’arte più alla moda e fu in occasione di uno degli eleganti vernissages a cui si recava pur senza conoscere nessuno, che incontrò la persona che faceva al caso suo, Yvonne Bocquetin. Madame Bocquetin era una donna di mondo, pianista e amante delle arti, viveva a Chantilly, poco fuori Parigi, e poiché rimase colpita dalle doti di questo giovane completamente solo in una città come Parigi, decise di prendersi cura di lui. Gli offrì una stanza nella propria casa e quando i due non erano impegnati nelle lezioni di francese, Madame Bocquetin e il giovane Bacon si recavano a Parigi per visitare mostre, andare a teatro oppure a dei concerti. Qualsiasi fossero state le esperienze passate nel mondo sotterraneo dell’omosessualità a Londra e Berlino, Francis Bacon sapeva perfettamente come comportarsi nella buona società e non perdeva occasione per mostrarsi galante, soprattutto con Yvonne, a cui era molto grato. Molti anni dopo la figlia di Madame Bocquetin avrebbe infatti ricordato che, quando usciva da solo, il giovane Francis non mancava mai di tornare a casa con un pensiero per Yvonne, a cui sarebbe rimasto legato per il resto della vita. Chantilly era diventato un punto fermo per Bacon non solo per quest’amicizia ma anche perché qui avrebbe visto per la prima volta uno dei quadri che avrebbe indicato poi come il vero e proprio catalizzatore della sua immaginazione. Il castello di Chantilly, antica residenza della nobile famiglia Condé, conservava, e conserva tuttora, un’importante collezione di dipinti antichi, tra i quali la seconda versione del Massacro degli Innocenti di Nicolas Poussin. Il grido della madre freneticamente intenta a salvare il figlio dall’essere trafitto dalla spada del soldato romano, rappresentato da Poussin, secondo Bacon era “probabilmente il miglior grido umano mai dipinto” e sicuramente la prima immagine, come avrebbe poi riferito, che ebbe una forte influenza su di lui. Ma nello stesso periodo un altro evento lo spinse a cominciare a disegnare e dipingere acquerelli, sebbene fino ad allora non avesse mai frequentato alcuna scuola. Nell’estate del 1927 il commerciante d’arte Paul Rosenberg allestì nella sua galleria di rue La Boètie a Parigi, un’ampia esposizione di disegni e acquerelli di Pablo Picasso tra i quali , come evidenziarono delusi i detrattori della mostra, non figurava alcuna composizione di tipo cubista. Erano tutte opere figurative di ispirazione classica, eseguite dallo spagnolo negli ultimi dieci anni. La mostra fu il primo contatto di Francis Bacon con Picasso, che fu per il giovane artista una rivelazione assoluta. Dall’anno di quell’esposizione in poi, Bacon avrebbe continuato a seguire gli sviluppi dell’arte di Picasso, anche una volta tornato a Londra, soprattutto attraverso i “Cahiers d’Art”, la rivista promossa a Parigi dallo storico dell’arte greco Christian Zervos a partire dal 1926. Zervos era un appassionato sostenitore di Picasso e nel 1927 non solo recensì la mostra organizzata da Rosenberg, ma pubblicò altri approfondimenti sullo spagnolo, come quello firmato da Max Jacob sui primi anni di Picasso a Parigi. “Cahiers d’Art” si proponeva di trattare gli argomenti artistico-culturali più avanzati e tra le numerose riproduzioni fotografiche che presentava, spaziava dalla pubblicazione di opere d’arte preistorica, africana, tribale, medio orientale ed egizia, fino alle ultime novità in fatto di architettura e design. Il sottotitolo della rivista era “Revue de l’avant-garde de tous les pays” e spiegava la vocazione cosmopolita con cui era gestita. Nel tentativo di aprirsi a tutte le arti, la rivista pubblicava le recensioni dei film più all’avanguardia, come avvenne per La corazzata Potemkin e Metropolis, che Bacon probabilmente aveva già visto a Berlino, ma anche per Napoleone di Abel Gance.
    Francis Bacon, che probabilmente nel frattempo ritenne di avere abbastanza dimestichezza col francese da poter lasciare Madame Bocquetin e Chantilly, per trasferirsi a Montparnasse, il cuore pulsante dell’attività artistica parigina di quegli anni, vide il film di Abel Gance a Parigi, all’Opéra, dove, per proiettare il lungometraggio strutturato in tre sezioni pensate per essere viste simultaneamente, erano stati predisposti tre schermi. È probabile che la più tarda scelta di Bacon del trittico come supporto della sua prima opera d’arte importante e il punto di vista dei tre soggetti raffiguranti nei singoli pannelli, derivi proprio dalla novità dell’iterazione cinematografica di tre scene, in cui nello stesso momento sono colti alternativamente primi piani e campi lunghi, presentata da Abel Gance in Napoleone. Per la rivista “Cahiers d’Art” aveva recensito il film un personaggio che, con le sue oper, presto divenne un’altra delle fonti primarie d’ispirazione per Francis Bacon. Si trattava di uno spagnolo di nome Luis Buñuel che aveva da poco iniziato a fare il critico cinematografico a Parigi e che all’inizio del 1929 tornò in Spagna per realizzare come regista con Salvador Dalì il film Un Chien andalou. Come sottolineò poi lo stesso Buñuel, se il surrealismo non fosse esistito, questo film non sarebbe mai stato realizzato e l’immagine di quella lama di rasoio che taglia un occhio, che costituisce il tema principale del film, non sarebbe rimasta come una delle scene più scioccanti e provocatorie della storia del cinema. Era un obiettivo che Dalì e Buñuel si erano proposti fin da principio, ciò che però non avevano previsto era il successo riscosso fin dalla première al Cinéma des Ursulines a Parigi. La capacità di Luis Buñuel di scuotere i sensi e di creare un’atmosfera di tensione affascinava Bacon, che avrebbe seguito con attenzione tutta la successiva produzione del regista spagnolo. Il desiderio di turbare, confondere e scuotere, appare come un’esigenza comune alle istanze artistiche e culturali del tempo e Bacon avrebbe fatto suo fin da subito questo desiderio.

    Edited by Al the Elder - 14/3/2012, 14:36
     
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    Primo periodo pubblico

    È stato lo stesso Francis Bacon a confondere e impedire che fosse fatta chiarezza sui primi tempi in cui, appena diciannovenne, da Parigi decise di tornare a Londra dove, probabilmente con l’aiuto finanziario della madre, allestì uno studio al 17 di Queensbury Mews West, a South Kensington. Aveva risistemato un garage per predisporre uno showroom alla moda, dove erano sistemati pezzi di arredamento e tappeti disegnati da lui, che si proponeva al pubblico come designer e arredatore. Come avrebbe scritto più tardi una rivista del tempo, sembra che avesse avuto le prime esperienze in questo settore a Parigi e Berlino, anche se tuttora non sono noti i particolari su come e dove effettivamente avesse operato.
    Settimanalmente organizzava delle sedute nel proprio studio in modo da promuovere i pezzi che disegnava e farsi conoscere. Vendeva agli amici, e agli amici degli amici, quel tanto da ripagare le spese, ma nonostante questo il fatto che fu scelto dalla rivista “The Studio” come uno dei tre esempi del “1930 Look in British Decoration”, stentava a decollare e tra i suoi interessi il disegno e la pittura cominciavano ad avere sempre maggiore spazio rispetto al design. Fu l’amicizia con il pittore Roy de Maistre a indirizzarlo più speditamente su questa strada. De Maistre aveva una quindicina di anni più di Francis Bacon e quando si conobbero, intorno al 1930, aveva maturato una vasta esperienza come artista, aveva vissuto a Parigi e sulla Costa Azzurra e frequentava un vasto giro di intelletuali, artisti e potenti della Londra di quegli anni. Forse però, ancor più delle possibili entrature nel mondo dell’arte, Roy de Maistre fu determinante per Bacon nel fornirgli un primo bagaglio di conoscenze tecniche. A differenza del giovane Bacon, che non aveva mai frequentato una scuola d’arte, de Maistre aveva una solida formazione tecnica, maturata in due scuole d’arte e per Bacon, che aveva appreso con tale rapidità a muoversi come designer, imparare le principali tecniche pittoriche non doveva essere un grosso problema. Alla fine del 1929 infatti, Francis produsse il primo quadro a olio della sua carriera, un’immagine vagamente malinconica che rappresenta un albero troncato, per metà immerso nella penombra. Con buona probabilità il quadro fu esposto nel 1930 nel suo studio a Queensbury Mews. A novembre, poco dopo il suo ventunesimo compleanno, Bacon organizzò infatti un’esposizione di dipinti, acquerelli, pezzi di design e tappeti; invitò Roy de Maistre e una ritrattista di nome Jean Shepeard a partecipare alla mostra. Oltre ad alcuni pastelli della Shepeard e sette dipinti di de Maistre, tra cui un ritratto di Bacon, erano esposti quattro dipinti, una stampa e quattro tappeti di Francis Bacon che, per i dipinti, aveva fissato un prezzo tra le 25 e le 45 ghinee, una cifra sorprendentemente più alta di quelle scelte dai suoi più anziani colleghi.
    Fin da principio aveva lavorato ispirandosi a quanto aveva appreso da Picasso e dai surrealisti, da Ejzenstejn e Buñuel, tutti fenomeni ancora abbastanza estranei alla cultura artistica inglese. Nel 1930 in Inghilterra non c’era qualcosa di affine all’intensità emotiva e alla violenza delle opere di Picasso, all’occhio affettato di Buñuel o al grido muto del volto di vecchia insanguinato di Ejzenstejn, o ancora alle immagini dissociate di Max Ernst; questo determinava il primo ostacolo all’affermazione della produzione del giovane, ormai orientato verso la pittura a scapito dell’attività di designer da cui, seppure sporadicamente riusciva a ricavare qualche guadagno.
    Le difficoltà economiche lo costringevano a sbarcare il lunario svolgendo i lavori più disparati. In questo periodo era rientrata nella sua vita disordinata Jessie Lightfoot.
    Jessie lo aveva cresciuto insieme ai suoi fratelli e, una volta allontanata dalla famiglia Bacon che non aveva più bisogno di lei, si era trasferita a casa di Francis a Londra, proprio in questo periodo. Ormai aveva una sessantina d’anni, ma né la breve convivenza di Francis con Eric Alden, né la sua libertà nell’avere altri incontri amorosi e abitudini del tutto non convenzionali, come il fatto di non presentarsi mai in pubblico se non dopo un accurato maquillage, costituirono mai un problema per la donna che, complice di Francis, si adeguò a tutto, persino a dormire sul tavolo di cucina, come pare facesse a Queensbury Mews, e rimase con lui fino alla propria morte. Fortunatamente però la svolta per Francis era vicina.
    Dopo diversi anni di chiusura, nell’aprile del 1933 riaprì la Mayor Gallery, già nota per avere proposto opere all’avanguardia negli anni Venti. L’esposizione inaugurale organizzata alla riapertura comprendeva lavori di artisti britannici come Nicholson, Nash e Moore e alcuni tra i più moderni artisti del continente, tra cui Braque, Léger, Dalì, Mirò e Ernst. Era la prima volta, negli ultimi dieci anni, che artisti inglesi venivano proposti insieme ad artisti stranieri; l’esposizione corrispose alla fine di un isolamento che perdurava in Inghilterra dalla fine della Prima Guerra Mondiale.
    Francis faceva parte del gruppo degli artisti presentati alla Mayor Gallery; le sue opere cominciavano a suscitare commenti da parte della stampa londinese che, riferendosi alla sua arte come quella di Max Ernst e Paul Klee, rilevava l’esclusiva intenzione da parte di questi pittori di andare contro qualsiasi convenzione estetica dando luogo a mere facezie, invece che a vere e proprie opere d’arte. Ma anche se la stampa non gli era favorevole, un importante critico come Herbert Read lo aveva notato, e una delle tele intitolate Crocifissione che Bacon aveva dipinto nel nuovo studio di Chelsea, dove si era trasferito nell’aprile del 1933, era stata riprodotta da Read accanto a un’opera di Picasso del 1929 nel suo libro Art Now: An Introduction to the Theory of Modern Paintings and Sculpture. La stessa opera fu inclusa dal critico nella mostra, volta a documentare le tesi del libro, che Read organizzò alla Mayor Gallery nel 1933: Michael Sadler decise di acquistare quella tela. Sir Michael Sadler non era un acquirente qualsiasi, prima di diventare uno dei maggiori collezionisti di arte contemporanea inglese, aveva già raccolto una discreta collezione comprando opere di Gauguin, Matisse e Bonnard. Oltre ad avere contatti personali con gli artisti che operavano sul continente a quel tempo, come Kandinsky, era stato uno dei primi sostenitori dello scultore Henry Moore, e il suo appoggio corrispondeva all’acquisizione di un nuovo status del gotha del panorama artistico inglese. Ma Sadler non si fermò all’acquisto della prima delle Crocifissioni di Bacon: comprò anche quella eseguita su carta a matita, gesso e acquerello. Inoltre diede a Francis una radiografia della propria testa chiedendogli di trarne un ritratto, con l’intenzione di esporlo all’University College di Oxford, dove insegnava. Si può dire che dalla fine del 1933 Bacon fosse sulla buona strada per affermarsi come una delle più importanti figure artistiche inglesi e, sull’onda dei recenti successi, l’artista ventiquattrenne decise di organizzare la sua prima esposizione personale. L’idea era quella di operare direttamente come promotore e venditore dei propri lavori, senza affidarsi alla mediazione di alcun gallerista. Chiese all’amico Arundell Clarke di potere utilizzare un piano della vasta casa che quest’ultimo aveva a Mayfair: chiamò questo spazio Transition Gallery e, nel febbraio del 1934, inaugurò la sua prima personale con sette dipinti a olio, alcuni disegni e acquerelli. All’apertura della mostra il colore a olio di qualche dipinto non era ancora del tutto asciugato; infatti, come avrebbe fatto altre volte nel corso della sua carriera, Bacon aveva preparato alcune opere immediatamente prima dell’esposizione lavorando con la massima intensità in prossimità dell’inaugurazione.
    L’unico motivo per il quale la mostra non fu considerata un fallimento totale furono gli acquisti delle opere da parte dell’amico Eric Alden e di sua cugina Diana Watson, che cercava di aiutare il “povero Francis”, come lo chiamava di solito. La reazione di Francis Bacon alle critiche alla mostra e al fatto che avendola organizzata personalmente la visitarono solo gli amici, fu quella di distruggere tutto a parte alcune opere tra quelle che aveva venduto. Un anno dopo, nell’estate del 1936, un altro evento contribuì ad allontanare Bacon dall’attività artistica che, comunque, fino ad allora non aveva avuto un ottimo riscontro.
    Il poeta David Gascoyne e il pittore e critico d’arte Roland Penrose, che si era avvicinato al movimento surrealista durante il suo lungo soggiorno parigino, promossero la prima Esposizione Internazionale Surrealista a Londra. La commissione, composta da Paul Nash, Henry Moore e Herbert Read fu incaricata di organizzare la mostra, seguendo i consigli di André Breton, Paul Èluard e Man Ray. Furono incluse le personalità più rappresentative del movimento e del periodo, come Dalì, Ernst, Magritte, Mirò ma anche Giacometti, de Chirico, Picasso; vi figuravano lavori di Duchamp, Picabia, Brancusi e anche alcune sculture africane. Nel periodo in cui la commissione stava selezionando le opere da esporre, Penrose e Read visitarono lo studio di Bacon e videro i suoi lavori più recenti. La giustificazione che fornirono per averlo escluso dal novero dei partecipanti all’esposizione che fu che i suoi dipinti “non erano abbastanza surrealisti”, ma quando molti anni dopo Bacon ricordò la loro visita, aggiunse sardonico che Penrose non si era trattenuto dal chiedergli: “Mr Bacon, non si rende conto che molto è avvenuto in pittura dopo gli impressionisti?” Era il secondo fallimento in breve tempo e veniva proprio da un gruppo, quello dei surrealisti, rappresentato dalla commissione, che, con l’anelito alla dissacrazione del reale in favore di un’interpretazione onirica, aveva espresso opere che erano proprio all’origine dell’arte di Francis Bacon. Ciò che colpiva la sua fantasia era quanto di più prevedibile e non convenzionale. Frammenti di immagini tratte da libri, riviste, esposizioni e luoghi legati alle esperienze di vita che andava accumulando, costituivano una sorta di repertorio illustrato, un bagaglio da cui, apparentemente nella maniera più casuale e istintiva, Bacon pescava e che, rimescolando, montava al fine di dare luogo a un’opera d’arte che comunque conservava il segno dell’impatto suscitato da quelle visioni. Era un processo creativo elaborato in totale consentaneità con quelli promossi dai surrealisti, ecco perché risultava sorprendente per Bacon il fatto di essere stato escluso dall’Internazionale Surrealista di Londra.
    Nel 1936 aveva traslocato nuovamente insieme alla vecchia Lightfoot. Si era trasferito in un decadente appartamento all’ultimo piano del numero 1 di Glebe Place, dove aveva trasformato una stanza in studio sebbene non lavorasse molto come pittore e si dedicasse piuttosto a giocare d’azzardo e intrattenere relazioni amorose. Una di queste, che nel frattempo divenne particolarmente importante fu quella con Eric Hall, più anziano di Bacon di una ventina d’anni. Hall si dedicò sempre di più al giovane artista, pagandogli l’affitto e aiutandolo in questo periodo di particolari ristrettezze economiche. Oltre a fornirgli un buon supporto economico, Eric incoraggiò Bacon anche dal punto di vista professionale, promuovendolo come artista. È grazie a lui che Bacon dipinse qualche quadro tra il 1936 e il 1937 e fu ancora Hall a chiedere a Thomas Agnew di consentirgli di allestire una mostra di opere di giovani artisti nella sua galleria, in cui solitamente erano esposti dipinti di maestri del passato e solo qualche moderno chiaramente affermato. Agnew prestò la galleria e, insieme a Bacon, esposero Victor Pasmore, Roy de Maistre e Graham Sutherland. Le loro opere furono riprodotte in una pubblicazione intitolata “The Referee”, in cui la produzione di Francis era assimilata a quella di un supposto “self-confessed Nonsense Group” formato sulla scia del Surrealismo. La stessa posizione critica negativa era assunta da altri, come i giornalisti del “Daily Mirror” e del “Sunday Times” che si espressero con ancora maggiore ironia su quanto il gruppo di giovani aveva presentato. Con le polemiche seguite alla mostra alla galleria di Agnew del 1937 si chiudeva il primo periodo pubblico di Francis Bacon nel panorama artistico contemporaneo. A parte pochi dipinti sopravvissuti, definiti più tardi dall’artista come lavori abbandonati, praticamente il giovane Bacon decise di rinunciare alla pittura e scompare dalla scena artistica per i sette anni successivi.
     
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    Grazie alla notevole fortuna personale Erich Hall provvedeva liberamente a coltivare con Francis Bacon piaceri e interessi culturali. Nonostante non si fosse separato dalla moglie con la quale aveva due figli, Hall era stabilmente legato al giovane artista. Insieme si recavano a concerti, mostre e a teatro. In questi anni, infatti, Bacon sviluppò un particolare interesse per le commedie di Shakespeare e per la tragedia greca ed è verosimile che sia stato Hall a indurlo ad affrontare letture sempre più sofisticate. Il futuro sviluppo di certi temi in pittura sarebbe derivato dall’idea della tragedia greca e dell’antichità in genere che Bacon avrebbe desunto da AEschylus in his Style di William Bedell Stanford, letto proprio in questo periodo in cui, sebbene non dipingesse molto, sembra che si dedicasse a elaborare e accrescere la propria cultura. La curiosità verso Eschilo e la tragedia greca era scaturita dopo che, con Eric Hall, Francis Bacon aveva assistito nel marzo del 1939 al Westminster Theatre alla prima della Riunione di famiglia, scritta dal poeta T.S. Eliot. Il tema centrale dell’opera era ispirato all’Orestea di Eschilo e Bacon ne era rimasto talmente colpito che non solo tornò a vedere la rappresentazione più volte, ma ritenne poi che fosse uno dei migliori pezzi scritti da Eliot per il teatro. Era la perfetta concisione che Bacon attribuiva all’esposizione del significato dell’opera da parte dei poeti e dei drammaturghi che lo rendeva tanto sensibile alle due forme letterarie che avrebbe particolarmente coltivato.
    Certamente il tempo non gli mancava; all’inizio della Seconda Guerra Mondiale era stato esonerato dal servizio militare a causa dell’asma di cui soffriva dall’infanzia. Ma poi, di fronte alla sofferenza e alla distruzione prodotte dalla guerra non aveva potuto esimersi dal fare qualcosa e si era proposto come volontario per la difesa civile. Fin da quando l’asma glielo consentì operò a tempo pieno nell’aiutare la gente dopo i bombardamenti o nel distribuire maschere antigas, ma quando le fitte polveri seguite ai crolli degli edifici aggravarono di molto il suo problema, fu costretto a smettere. Anche se, lasciata la famiglia, Bacon aveva deciso di chiudere con la campagna, per far sì che Francis si ristabilisse, nel 1942 Eric Hall affittò un cottage nei dintorni di Londra, nello Hampshire, dove i due passarono un breve periodo prima che la vitalità della città attraesse nuovamente l’artista che non amava “svegliarsi con il canto di tutte quelle cose fuori dalla finestra”.
    Tornato a Londra alla fine del 1943, Bacon lasciò lo studio che aveva occupato gli ultimi sette anni in Glebe Place a Chelsea per spostarsi in un appartamento più grande, dove avrebbe prodotto le opere con le quali si sarebbe definitivamente affermato come artista. Si spostò al piano terra di una grande casa al numero 7 di Cromwell Place, a South Kensington. La casa era famosa come la “Millais House”, dal nome di John Everett Millais, un pittore preraffaelita che l’aveva occupata, e si trovava poco lontano sia dal Museo della Scienza che dal Victoria and Albert Museum, luoghi che Bacon avrebbe visitato sistematicamente.
    Con l’aiuto dell’onnipresente “Nanny” Lightfoot, Francis Bacon ed Eric Hall trasformarono la casa di Cromwell Place in uno dei luoghi più mondani di quegli anni, dando spazio durante le serate sia a discussioni sull’arte, la musica o il teatro, sia al più sfrenato gioco d’azzardo. Nel 1944 Francis Bacon completò un dipinto cominciato qualche anno prima. Si tratta dell’opera intitolata Tre studi per figure alla base di una Crocefissione. Tre dipinti distinti concepiti come un’opera unica, un trittico, il cui comune denominatore è costituito dall’arancio intenso che colora le pareti delle tre stanze prospetticamente alterate e prive di finestre, ognuna delle quali accoglie l’immagine di una distorsione ottenuta lavorando su forme umane e animali. Nell’aprile del 1945 i Tre studi per figure alla base di una Crocefissione furono esposti da Francis Bacon, insieme a un’opera intitolata Figure in un paesaggio, alla prestigiosa Lefevre Gallery a Londra, in New Bond Street, dove Bacon era stato invitato a esporre insieme ad altri artisti inglesi contemporanei. E le reazioni del pubblico di fronte ai tre studi di Bacon, furono esattamente quelle che egli sperava: “… Metà umani, metà animali … non avevamo un nome per loro, e non sapevamo come chiamare ciò che provammo di fronte a loro”, scrisse uno dei testimoni dell’esposizione (Russel, 1993) e ancora: “Lo confesso, ero così scioccato e turbato dal Surrealismo di Francis Bacon che fui contento di lasciare l’esposizione” (“Apollo”. Maggio 1945). Il turbamento e lo shock non escludevano però la coscienza da parte della critica che Bacon avesse lavorato su quanto svolto da Picasso negli ultimi anni, soprattutto in occasione di Guernica, giungendo finalmente a elaborare un linguaggio del tutto personale: aveva trovato la propria strada. Alla mostra alla Lefevre Gallery aveva partecipato anche un altro giovane artista, Graham Sutherland, che Bacon conosceva dai tempi in cui entrambi avevano esposto da Agnew. Fu intorno al 1945 tuttavia che il loro rapporto si fece più intenso e Sutherland, che era più conosciuto di Bacon e lo stimava sinceramente, introdusse l’amico ad alcune personalità delle istituzioni artistiche inglesi, come John Rothenstein e Kenneth Clark, che determinarono la sua definitiva affermazione. Se la conoscenza di John Rothenstein, direttore della Tate Gallery, e il suo supporto diedero luogo nel 1962 alla prima ampia personale di Bacon, non meno fruttuosa fu la conoscenza di Kenneth Clark. Sutherland fu talmente insistente, che il direttore della National Gallery alla fine si recò a visitare lo studio di Francis Bacon mentre egli stava lavorando al Dipinto 1946. Dopo aver attentamente osservato il lavoro, Clark si rivolse a Bacon, dicendogli: “Interessante, sì. Che tempi straordinari stiamo vivendo”, e poi se ne andò. Bacon fu molto deluso dalla visita ma la stessa sera incontrando a cena Sutherland, Clark commentò la visita sottolineando: “probabilmente saremo una minoranza composta da me e te, ma potremmo anche aver ragione nel considerare che Francis Bacon ha del geniale” (Peppiatt, 1996). E fu ancora grazie a Sutherland che Bacon conobbe la sua prima mediatrice e committente. Erika Brausen che aveva fondato nel 1947 la Hanover Gallery facendola divenire la vetrina più importante del mercato londinese contemporaneo. Il risultato del rapporto con la Brausen fu che il lavoro di Bacon progressivamente attrasse alcuni facoltosi collezionisti sia inglesi che americani. Nel frattempo una o due delle sue opere figuravano con frequenza sempre maggiore alle mostre di artisti inglesi contemporanei; il nome di Bacon diveniva sempre più conosciuto e le sue opere erano recensite dai maggiori giornali.
    La vendita del Dipinto 1946 a Erika Brausen aveva fruttato all’artista una cifra rilevante per l’epoca, soprattutto in considerazione del fatto che Bacon non era un artista molto noto sul mercato. Ma la sua mediatrice aveva visto giusto e nel 1948 era riuscita a vendere la stessa opera ad Alfred J. Barr che curava le acquisizioni per il Museum of Modern Art di New York. Il solo fatto di avere un’opera in una delle raccolte d’arte contemporanea più importanti del mondo, non solo stimolava molti collezionisti a comprare opere di Bacon, ma sanciva definitivamente l’importanza della sua produzione. Nel giro di soli tre anni dalla prima esposizione alla Lefevre Gallery Bacon poteva ritenersi un artista affermato e con le 200 sterline venute dalla vendita di dipinto 1946 e gli anticipi da parte della Brausen in previsione di una mostra che sarebbe stata organizzata alla Hanover Gallery nel 1949, Bacon si era recato con Eric Hall in Costa Azzurra, per “investire” il suo denaro nel gioco d’azzardo, tra alberghi di lusso e raffinati ristoranti, con l’idea di dipingere sotto il sole della Riviera francese. Purtroppo però le distrazioni erano troppe e prima dell’inaugurazione della mostra del 1949, fu costretto a tornare nello studio di Cromwell Place dove portò a termine il ciclo delle sei Teste cominciate l’anno precedente. La serie fu presentata a novembre nella galleria della Brausen e, a parte qualche critica, l’esposizione fu un grande successo. Wyndham Lewis, uno dei massimi artisti e teorici del XX secolo, sulla rivista “The Listener” scrisse che “nessuno dei giovani artisti contemporanei dipinge grandiosamente come Bacon”: alcuni dei suoi dipinti gli ricordavano Velàsquez. Effettivamente, nella Testa VI, Bacon aveva proposto per la prima volta una variazione dal Ritratto di Papa Innocenzo X di Velàsquez, un soggetto che avrebbe affrontato nuovamente tornandoci più volte sopra, sempre con risultati diversi, nel corso dei dieci anni successivi. Nella prima delle nove interviste con David Sylvester, registrate dalla BBC tra il 1962 e il 1986, Bacon avrebbe spiegato: “per quanto riguarda i papi la religione non c’entra assolutamente; sono piuttosto frutto di un’ossessione per le riproduzioni fotografiche del ritratto di Papa Innocenzo X di Velàsquez … compero un libro dopo l’altro con dentro la riproduzione del Papa di Velàsquez, semplicemente perché mi assilla e apre in me ogni sorta di sensazione e persino campi … d’immaginazione” (Sylvester, 2003).
    Gli antichi maestri lo avevano sempre interessato molto, a cominciare dal quadro con il Massacro degli Innocenti di Nicolas Poussin, ma le sue opere, a partire da Teste, fino alle ultime, avrebbero presentato un dialogo continuo con la tradizione. Le interviste all’artista e la precisa ricostruzione del suo studio al 7 di Reece Mews a South Kensington, dove visse dal 1961 fino alla morte avvenuta nel 1992, evidenziano come dalla ricca e caotica mescolanza di libri, riviste e fotografie vecchie e nuove, Bacon selezionasse accuratamente, volta per volta, solo alcune immagini alle quali si ispirava e che talvolta ritoccava, usandole come base sulla quale elaborare l’opera d’arte finale.
    All’origine di questo processo creativo la contemporaneità, rappresentata dal vasto e apparentemente disparato materiale che conservava nel proprio studio – illustrazioni di riviste, fotografie eseguite da amici fotografi, riproduzioni anatomiche scientifiche, radiografie, foto sportive o foto di animali -, era un repertorio d’ispirazione a cui attingere in un confronto alla pari con le opere di alcuni maestri antichi e moderni, come Velàsquez, ma anche Michelangelo, Rembrandt, Ingres, e poi Van Gogh. Al pari di fotografie, riviste, libri o singole illustrazioni strappate dalle pubblicazioni più varie, Bacon lavorava anche sulle riproduzioni di alcune opere di questi pittori usate in aperto confronto con materiale illustrativo contemporaneo. Per quanto riguarda Michelangelo, infatti, avvenne proprio questo. In una delle conversazioni con Sylvester, Bacon affermò che Eadweard Muybridge e Michelangelo fossero “compresenti” nella sua mente e che egli potesse contemporaneamente trarre ispirazione dalle pose fotografiche di Muybridge e dalla potenza dei nudi di Michelangelo. Dalla fine degli anni Quaranta la fotografia era divenuta sempre più importante per Bacon, che negli anni a seguire avrebbe richiesto precisi scatti fotografici dei propri modelli prima di realizzarne il ritratto; e foto di tal genere realizzò per lui John Deakin. All’inizio degli anni Cinquanta al Victoria and Albert Museum Bacon aveva scoperto un fotografo il cui lavoro gli fu particolarmente congeniale. Si trattava di Eadweard Muybridge, i cui lavori Animals in Motion e The Human Figure in Motion, avrebbero costituito più volte “stimoli per nuove idee”. Ma oltre a Muybridge, Bacon fu interessato a tutta la storia della fotografia da Etienne-Jules Marey, Julia Margaret Cameron, Nadar, fino ai contemporanei.
    Nel corso degli anni Cinquanta la fama di Francis Bacon era progressivamente cresciuta, senza ostacoli; ormai era un artista più che affermato, anche a livello internazionale e, in un solo anno, il 1959, oltre a comparire in giugno alla Hanover Gallery di Londra, dodici suoi dipinti furono esposti alla Richard Feigen Gallery di Chicago, tre figuravano alla grande rassegna artistica di Kassel, “Documenta II”, dodici alla V Biennale d’Arte di San Paolo e cinque alla mostra collettiva “New Image of Man” di New York. Negli ultimi anni aveva cambiato ritmo di lavoro e aumentato notevolmente la produzione, anche se aveva viaggiato molto. Dopo la morte di Nanny Lightfoot, all’inizio degli anni Cinquanta, Bacon aveva riallacciato i rapporti con la madre, che nel frattempo si era risposata e si era trasferita in Sud Africa. Per vederla, dunque, Bacon era costretto a muoversi e nella prima metà degli anni Cinquanta si recò due volte a trovarla, fermandosi anche in Egitto e in Kenya. L’africa doveva attrarlo nuovamente nel 1956, quando il suo nuovo compagno, Peter Lacy, un pilota collaudatore che eseguì varie incursioni durante la Battaglia d’Inghilterra, prese una casa a Tangeri. In quell’anno Francis Bacon lo raggiunse una prima volta ed ebbe così modo di conoscere Allen Ginsberg e alcuni poeti della Beat Generation che giungevano a Tangeri, sulla scia di William Burroughs. Francis sarebbe tornato nella città africana altre volte fino al 1958, quando si rese conto che tutto l’entusiasmo con il quale si era proposto di lavorare alacremente in Africa non aveva prodotto grandi risultati. A causa degli anticipi che si era fatto dare da Erika Brausen, si ritrovò indebitato e privo di lavori pronti per essere esposti o venduti. La via d’uscita gli si presentò quando i direttori della Marlborough Fine Arts Gallery gli proposero di saldare il debito che aveva con la Brausen, per passare a esporre per loro. Bacon accettò prontamente e ricominciò a lavorare in vista del vernissage alla Marlborough Fine Arts del 1960, quando presentò trenta nuovi dipinti realizzati tra il 1959 e il 1960. Come tutte le mostre che seguiranno, l’esposizione fu un vero successo, ma il ruolo di portavoce assoluto di un nuovo linguaggio gli venne riconosciuto dopo la grande personale organizzata da John Rothenstein alla Tate Gallery di Londra nel 1962. La stessa mostra, nella quale furono esposti circa novantadue dipinti, la metà della sua intera produzione, venne poi trasferita a Mannheim, Torino, Zurigo e Amsterdam. Il giorno dell’inaugurazione, insieme ai telegrammi di congratulazioni, Bacon ebbe la notizia della morte di Peter Lacy, avvenuta a Tangeri, e sebbene la loro relazione tempestosa si fosse conclusa da qualche tempo e fosse in atto quello che un giornalista chiamò il “Bacon boom”, l’artista stentò a uscire dal dolore provocato da quest’evento.
    I suoi problemi economici erano più che superati. Tuttavia, dal 1961, aveva trasferito lo studio in una piccola casa al numero 7 di Reece Mews a South Kensington; più volte pensò di cambiare nuovamente e trasferirsi in uno studio più grande o addirittura in un’altra città, come quando decise di andare a lavorare a Parigi alla metà degli anni Settanta. Ma Bacon rimase fino alla morte nelle due piccole stanze poste sopra il grande garage dove, non avendo mai avuto una macchina, conservò solo alcune pile di libri. Alle due stanze si accedeva da una stretta scala in legno simile a quella di una barca. In cima alle scale, a sinistra, si apriva una spoglia camera-salotto e, a destra, un piccolo e caotico studio, in cui sempre meno persone avrebbero avuto accesso. Era una sistemazione estremamente modesta quella che l’artista avrebbe conservato fino alla fine dei suoi giorni, ma soprattutto sorprendentemente lontana dal gusto per il lusso che lo aveva sempre contraddistinto. Come del resto ancora più contrastante era la distanza tra l’accuratezza, l’ordine e la pulizia dei suoi vestiti perfettamente tagliati e stirati, la misura con cui si sceglieva il maquillage e la tinta per capelli, e il caos più completo regnava nel piccolo studio. La perfetta ricostruzione di questo spazio, allestita nel 2001 a Dublino, ha consentito di contare 7500 pezzi, tra disegni, fotografie, illustrazioni, libri, cataloghi, parti di dipinti distrutti e altro materiale volontariamente accumulato dall’artista nel corso degli anni. Per Francis Bacon lo studio era come “il laboratorio di un chimico, in cui non puoi fare a meno di immaginare che un evento inaspettato abbia luogo” (Sylvester, 1999). Nell’atelier avevano luogo incontri con amici, tra cui probabilmente quelli con lo scultore Alberto Giacometti, conosciuto nel 1965, con cui avrebbe avuto molti scambi sul piano artistico. Lo stesso posto avrebbe visto l’evoluzione di un’altra storia d’amore finita male, quella con George Dyer che si sarebbe suicidato nel 1971 nella stanza che condivideva con Bacon all’Hotel des Saints-Pères a Parigi, due giorni prima dell’apertura della prima personale dell’artista in Francia, al Grand Palais, in coincidenza con il sessantaduesimo compleanno. I due si erano incontrati in un pub a Soho e Dyer, di tutti gli amici ritratti in maniera ossessiva da Bacon, era subito divenuto il suo modello preferito: anche dopo la sua morte Francis si sarebbe ispirato all’immagine del compagno. Tre anni dopo la morte di George, Bacon riuscì a ritrovare una certa serenità grazie all’amicizia che strinse con un giovane uomo conosciuto in un locale, John Edwards. I due divennero inseparabili: oltre ad assisterlo mentre dipingeva, Edwards fu anche il fotografo di Francis, dopo la morte di John Deakin, e quando Bacon morì, fu John a essere designato suo unico erede.
    Durante gli anni Sessanta, dopo la personale alla Tate Gallery, Francis Bacon era passato rapidamente dall’essere un artista eccentrico, apprezzato da un élite di conoscitori, all’essere un pittore di statura internazionale, di grande fama, un artista che poteva guadagnare cifre da capogiro. Tanto che subito dopo la sua morte ognuno dei dipinti che lasciò nello studio fu valutato un milione di sterline. Nel 1967 aveva ricevuto due importanti premi internazionali e, a partire dal 1971, erano stati pubblicati i primi cataloghi della sua opera a cura di John Deakin e John Russel. L’ultimo degli scrittori surrealisti, Michel Leiris, aveva contribuito in maniera determinante a creare la sua fama in Francia a partire dal loro incontro all’apertura della personale di Giacometti alla Tate Gallery nel 1965, mentre le conversazione che aveva avuto con David Sylvester venivano tradotte in francese, pubblicate dall’editore svizzero Albert Skira. Le sue opere nel frattempo erano esposte sia a Tokyo che a Mosca. E nonostante il fatto che fosse stato definita il più importante artista vivente e che i media lo trattassero come un fenomeno, rilevando l’esistenza del “Bacon Myth”, Francis continuava a lavorare e a spostarsi come quando nel 1990, ottantunenne, decise di recarsi a Madrid per visitare la grande mostra di Velàsquez. Non fu questa visita nella capitale spagnola a essergli fatale, ma la seconda, fatta nel 1992, quando pensò di poter recuperare un po’ di vitalità con un viaggio. L’uomo che, pur sostenendo di non aver mai volontariamente affrontato temi sacri per la loro valenza religiosa, aveva cominciato la sua carriera di pittore con una Crocifissione ed era divenuto famoso con la rappresentazione di un papa, cinque giorni dopo essere giunto in Spagna morì, assistito in una clinica da due suore dell’ordine delle Serve di Maria.

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    Edited by Al the Elder - 18/3/2012, 16:08
     
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    Francis Bacon Tre studi per figure alla base di una crocifissione

    1944 - olio e pastello su truciolato - 94x74 cm (ciascuno), Londra, The Tate Gallery


    Tre-Studi-Per-Figure-Alla-Base-Di-Una-Crocifissione-1944



    Nell’aprile del 1945 i Tre studi per figure alla base di una crocefissione furono esposti da Francis Bacon insieme a un’opera intitolate Figure in un paesaggio alla prestigiosa Lefevre Gallery a Londra, in New Bond Street, dove Bacon era stato invitato a esporre con altri artisti inglesi contemporanei. Le reazioni del pubblico di fronte ai tre studi furono esattamente quelle che l’artista sperava: “… Metà umani, metà animali … non avevamo un nome per loro, e non sapevamo come chiamare ciò che provavamo di fronte a loro”, scrisse uno dei testimoni dell’esposizione (Russell, 1993); e ancora: “Lo confesso, ero così scioccato e turbato dal Surrealismo di Francis Bacon che fui contento di lasciare l’esposizione” (“Apollo”, maggio 1945).
    Tre studi per figure alla base di una Crocifissione sono dipinti distinti concepiti come un’opera unica, un trittico, il cui comune denominatore è l’arancio intenso delle pareti delle tre stanze prospetticamente alterate e prive di finestre. Ciascun ambiante contiene una figura mostruosa, ottenuta lavorando su forme umane e animali: due presentano, rispettivamente, una bocca capovolta e spalancata con una sola fila di denti e una bocca semiaperta bloccata in una smorfia di tensione. Escludendo qualsiasi astrazione geometrica che avrebbe creato una distanza dalla realtà, queste figure, al contrario, mostrano la loro radice umanoide, rivelandosi come prodotti dell’alterazione di forme derivate da organismi viventi. In questo modo, la complessa elaborazione mirava a sollecitare l’emotività dell’osservatore con il preciso desiderio di suscitare turbamento e inquietudine, se non addirittura vero e proprio raccapriccio.



    Edited by Albrecht - 7/4/2012, 16:49
     
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    Francis Bacon Dipinto 1946

    1946 - olio e tempera su tela - 198x132 cm - New York, The Museum of Modern Art


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    Nel 1948 Alfred J. Barr, allora direttore del Museum of Modern Art di New York, acquistava il Dipinto 1946 da Erika Brausen. L’acquisizione della tela da parte di una collezione pubblica prestigiosa come quella di New York sanciva la prima affermazione di Francis Bacon come artista e ne consolidava il legame commerciale con la Brausen, la proprietaria della Hanover Gallery di Londra, che per prima aveva comprato l’opera per ben duecento sterline. La gallerista era stata indirizzata al pittore, ancora poco conosciuto, da un artista affermato come Graham Sutherland, che stimava e sosteneva Francis Bacon. Inoltre, nel novembre 1946, l’opera era stata scelta per la sezione britannica dell’Esposizione internazionale d’arte moderna a Parigi.
    Nel corso della prima delle nove interviste con David Sylvester, grande critico d’arte e curatore di mostre, membro dell’Arts Council e collaboratore della Tate Gallery e del Centre Pompidou, Bacon avrebbe spiegato com’era stata concepita la tela e in quanto tempo era stata ultimata: “Uno dei dipinti del 1946, quello che sembra una macelleria, mi è venuto fuori per caso. Stavo tentando di rappresentare un uccello che si posa in un campo. E l’immagine poteva per certi aspetti essere collegata alle tre forme che avevo realizzato in precedenza, ma tutt’a un tratto le linee che avevo tracciato suggerivano qualcosa di totalmente diverso, e da questo suggerimento è nato il dipinto. Non avevo intenzione di farlo in questo modo; non lo avevo mai pensato così. È stato come una serie di casi fortuiti che si sono accavallati … non penso che l’uccello abbia suggerito l’ombrello; ha di colpo suggerito l’intera immagine. E ho completato il dipinto molto rapidamente, in due o tre giorni” (Sylvester, 2003).

    Edited by Albrecht - 7/4/2012, 16:52
     
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    Francis Bacon Testa II

    1949 - olio su tela - 80,6x65,1 - Belfast, Ulster Museum


    testaiibacon001



    Nel 1949 Francis Bacon espone un ciclo di sei opere intitolato "Teste I-VI" alla Hanover Gallery di Londra.
    La serie comprende sei variazioni dello stesso tema, quello del titolo; se le Teste I e II appaiono dominate dalla rappresentazione della bocca e dei denti, nella "Testa III" sono gli occhi, gli occhiali e la bocca a emergere, mentre nella "Testa IV" è raffigurato un uomo visto da dietro con una scimmia.
    La "Testa V", in cui la testa e li viso risultano difficilmente leggibili, è il dipinto più astratto della serie e la "Testa VI" è la prima opera in cui Bacon propone una variazione del ritratto di papa Innocenzo X di Velazquez, che negli anni successivi gli ispirerà altri dipinti.
    Nella "Testa II" le dentature di due bocche aperte risaltano sul margine superiore della forma organica entro la quale sono comprese, contribuendo a rendere quest'ultima ancora più misteriosa.
    Sullo sfondo, le larghe e spesse pennellate nei toni del bianco e del grigio alludono a un tendaggio che occupa la totalità della parte superiore del dipinto, indirizzando l'attenzione sui netti contrasti di nero e bianco delle bocche.
    "Mi hanno sempre molto colpito i movimenti della bocca e la forma della bocca e dei denti", avrebbe affermato Bacon molti anni dopo l'esecuzione della serie. "Si dice che ci siano sotto ogni genere di implicazioni sessuali. Sono sempre stato ossessionato dall'aspetto della bocca e dei denti, forse oggi non lo sono più, ma per un certo periodo è stata per me una cosa molto forte. Mi piacciono - mettiamola così - il luccichio e il colore collegati alla bocca, e ho sempre sperato di riuscire a dipingere la bocca come Monet dipingeva un tramonto...E ho sempre voluto dipingere il sorriso, senza mai riuscirci..."
     
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    Francis Bacon Studio per un ritratto (1949)

    1949 - olio su tela - 147,3x130,8 - Chicago, Museum of Contemporary Art


    studioperunritratto001



    Lo "Studio per un ritratto" del 1949 fu eseguito nel periodo in cui Bacon stava affermandosi a livello internazionale.
    Aveva già già esposto alla Tate Gallery di Londra e a Parigi; una delle sue opere compariva nella collezione del Museum of Modern Art di New York.
    Il dipinto rappresenta una sintetica figura maschile in abito scuro, camicia bianca e cravatta, bloccata sulla sedia e apparentemente fissata nel momento dell'urlo.
    Le rade e sottili pennellate bianche focalizzano l'attenzione sui particolari che caratterizzano espressivamente il dipinto.
    Il bianco infatti, circoscrive la bocca spalancata dell'uomo evidenziando la cavità scura della bocca dentata, profila i contorni della camicia facendo risaltare la forma della cravatta e la rigidezza dell'abito, e altre pennellate bianche più larghe enfatizzano l'ancoraggio delle mani ai braccioli della sedia sulla quale è seduto il personaggio che sembra incastrato in una sorta di scatola di vetro centrata su uno sfondo verde smeraldo, interrotto in basso a destra da una colata di colore nero, acceso di blu elettrico.
    Nel corso delle conversazioni con Sylvester, stimolato a chiarire il ruolo di quella "scatola di vetro" che diede origine a varie interpretazioni da parte della critica.
    Francis Bacon avrebbe risposto che quella "scatola", o cornice, non serviva altro che a isolare e concentrare l'attenzione sull'immagine che conteneva, permettendo di "vederla meglio".
     
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    Francis Bacon Studio dal corpo umano

    1949 - olio su tela - 147,5x131 cm - Melbourne, National Gallery of Victoria on Russel


    studiodalcorpoumano001



    La tela rappresenta una figura maschile vista da dietro, mentre scosta due tende per immettersi in uno spazio scuro nel quale la testa, piegata leggermente in avanti rispetto al corpo, sembra essere già entrata.
    Le due tende sono rese attraverso lunghe pennellate sui toni del grigio, strisciate in verticale sulla tela.
    L'andamento ordinato dei tocchi radi dei tendaggi è interrotto al centro dalla silhouette dell'uomo.
    Pochi ritocchi di bianco, usati come riflessi di luce, ne definiscono l'anatomia potente: le forme piene e compatte sono sintetizzate in pennellate larghe per le campiture e tocchi lunghi e sottili contribuiscono a determinare il disegno della figura syessa che emerge chiara in contrasto con i toni scuri del resto dell'opera.
    I nudi maschili di Francis Bacon sono stati ricondotti dalla letteratura sull'artista non solo all'interpretazione dello stesso tema di Eedweard Muybridge, le cui fotografie furono usate frequentemente come fonte d'ispirazione da Bacon, ma più in generale sono stati associati alla potenza dei nudi michelangioleschi.
    A questo proposito Bacon stesso è intervenuto: "...E' possibile che abbia imparato da Muybridge riguardo le posizioni e da Michelangelo riguardo all'ampiezza e alla grandezza delle forme, e sarebbe per me molto difficile separare l'influenza di Muybridge da quella di Michelangelo. Ma naturalmente, siccome la maggioranza delle mie figure hanno a che vedere con il nudo maschile, sono certo di essere stato influenzato dal fatto che Michelangelo ha realizzato i più voluttuosi nudi maschili che ci siano nelle parti plastiche".
     
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    Francis Bacon Studio da Velazquez

    1950 - olio su tela - 198x137,2 cm - Londra, The Estate of Francis Bacon



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    Nel 1962 Francis Bacon affermava: "Per quanto riguarda i Papi, la religione non c'entra assolutamente; sono piuttosto frutto di un'ossessione per le riproduzioni fotografiche del ritratto 'Papa Innocenzo X' di Velazquez...uno dei più grandi ritratti mai realizzati...Compero un libro dopo l'altro con dentro la riproduzione del 'Papa' di Velazquez".
    Nel corso delle conversazioni con Sylvester l'artista avrebbe poi aggiunto alcuni elementi in merito al rapporto con l'opera di Velazquez: "In Velazquez è davvero straordinario il modo in cui ha saputo tenere l'immagine così vicino alla cosiddetta illustrazione e al tempo stesso rivelare con tanta intensità le emozioni più grandi e più profonde che un uomo possa provare...quando guardiamo i suoi dipinti, guardiamo indubbiamente qualcosa che riflette molto da vicino le cose così come si presentavano allora".
    L'impatto emotivo suscitato dal ritratto di Velazquez viene tradotto da Bacon nell'intensa espressività del volto del papa.
    Sintetici tocchi di bianco fissano il grido di quest'ultimo e il suo sguardo fermo, una maschera innestata sulla figura possente seduta su un trono rialzato da un podio, che appare poggiato su un piano che risalta per il colore rosso acceso, l'unica tonalità squillante dell'opera
    La figura del papa è collocata entro un largo sfondo scuro che isolandola contribuisce a determinarne l'importanza.
    Una serie ordinata di pennellate lunghe e larghe di grigio ha origine oltre la cortina semicircolare, sostegno di un tendaggio velato che in trasparenza lascia vedere il podio sul quale poggia il trono.
     
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    Francis Bacon Papa I - Studio da Papa Innocenzo X di Velàzquez

    1951 - olio su tela - 197,8x137,4 - Aberdeen, City Art Gallery and Museum Collections



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    Le opere "Papa I, II, III" furono dipinte da Francis Bacon per un'esposizione che doveva tenersi alla Hanover Gallery di Londra.
    Come avviene di frequente nella produzione artistica di Bacon, che chiarisce la questione spiegando "vedo sempre ogni immagine in modo mutevole, quasi in sequenze mutevoli", le tre opere furono concepite come una serie e furono il primo ciclo esposto riguardante un medesimo soggetto.
    Stando a quanto riferisce Ronald Alley (1964), "Papa II" fu eseguito per primo, seguito da "Papa I" e poi da "Papa III" che, andato distrutto, resta noto solo grazie alle fotografie che ne sono state tratte.
    Sebbene il sottotitolo di "Papa I, studio da Papa Innocenzo X di Velazquez", rimandi all'opera del pittore spagnolo, che fu usata come modello per varie reinterpretazioni da parte di Bacon, una fotografia dello studio dell'artista, scattata dallo storico dell'arte Sam Hunter in un periodo ravvicinato all'esecuzione dell'opera, dimostra che tra le fonti d'ispirazione per questa serie ci furono piuttosto alcune foto di un papa moderno, Pio XII, in processione attraverso piazza San Pietro.
    Ne costituirebbe una prova ulteriore la posa e la particolare definizione della sedia gestatoria del pontefice, riprese puntualmente da tali immagini.
    Un particolare come quello degli occhiali, mai usato nella rappresentazione del papa, sarebbe invece da ricondurre a un'immagine tratta dalla "Corazzata Potemkin" di Ejzenstein che, secondo quanto avrebbe affermato l'artista stesso, fu una vera e propria chiave d'apertura per la sua immaginazione.
     
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    Francis Bacon Studio di nudo (da The Human Figure in Motion di E. Muybridge)

    1952-1953 - olio su tela - 61x51 cm - Norwich, University of East Anglia, Sansbury Centre for Visual Arts


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    Questo "Studio di nudo" rappresenta una figura maschile vista di spalle, inserita in un a struttura geometrica simile a quella di una gabbia.
    Quest'uomo con i muscoli tesi e le braccia alzate si trova in piedi su uno dei margini della sottile struttura tridimensionale, apparentemente pronto a tuffarsi nello specchio blu profondo che ha di fronte.
    La tensione muscolare della figura, realizzata con sintetici tocchi di bianco, risalta al centro del dipinto, entro uno spazio determinato in profondità dalla scorciatura prospettica della gabbia che affonda in un'oscurità variata dalle pennellate grigie che, partendo dall'alto si esauriscono in prossimità del nudo.
    A differenza di come appaiono concepiti altri dipinti dell'artista, in cui più fonti di ispirazione vengono mescolate e reinterpretate, in questo caso Bacon ricava pedissequamente la posa e tutto il nudo da uno scatto della serie "Man performing standing broad jump" tratta dal libro del 1887 di Edward Muybridge "The Human Figure in Motion".
    La rappresentazione delle figure di nudo nella produzione artistica di Bacon, oltre alle foto di Muybridge, si avvale tuttavia di una ricerca svolta sia sugli esempi di artisti più antichi, come Michelangelo, che su quelli di artisti più moderni come Ingres, Géricault, e poi Degas, Seurat e Cézanne.
     
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    Francis Bacon Studio per un ritratto

    1953 - olio su tela - 197x137 cm - Napa, The Hess Collection



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    Il taglio verticale della tela inquadra centralmente la figura maschile ritratta.
    L'uomo, di cui resta ignota l'identità, è raffigurato seduto su una sedia con i braccioli, la cui struttura è molto simile a quella delle sedie rappresentate da Bacon nei dipinti con il papa.
    La sedia è prospetticamente scorciata lungo direttrici che indirizzano verso un punto di fuga a sinistra, spostato lateralmente rispetto a quello centrale della scatola a parallelepipedo entro la quale appare inserito l'uomo.
    I profili filiformi di questa specie di gabbia semplificata, usata da Bacon al fine di isolare il soggetto, sono realizzati attraverso sottili pennellate di blu elettrico, che risaltano opponendosi al disegno geometrico della sedia in giallo e allo sfondo dell'opera, risolto nella metà inferiore della campitura di nero bluastro compatto e nella metà superiore nei toni del nero, del blu e del grigio alternati attraverso lievi striature.
    Il volto anziano dell'uomo con gli occhiali sembra protendersi verso l'osservatore nell'atto di alzarsi dalla sedia.
    L'ipotesi che Bacon avesse voluto fissare questo movimento in potenza è avvalorata dalla posizione delle braccia.
    L'arto destro infatti si puntella sul bracciolo per sostenere il peso del corpo, mentre quello sinistro fa leva per sollevarlo.
    La rappresentazione della tensione muscolare o anche emotiva costituiva uno degli obiettivi perseguiti dall'artista che sosteneva: "Occorre un momento quasi di magia per coagulare il colore e la forma si da conseguire l'equivalente dell'apparenza, dell'apparenza che vedi in qualsiasi momento, perché la cosiddetta apparenza rimane fissata solo momentaneamente come tale. Basta un istante, il tempo di strizzare gli occhi o di girare appena la testa, poi guardi l'immagine e l'apparenza è cambiata".
     
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    Francis Bacon Uomo in blu II

    1953 - olio su tela - 152x117 cm - Basilea, Collezione Gallerie Beyeler



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    Il dipinto appartiene a una serie intitolata "Uomo in blu" composta da sei versioni del tema.
    Il soggetto principale è un uomo con il quale Bacon ebbe una relazione e con cui si intrattenne all'Hotel Imperial di Henley-on-Thames, fuori Londra.
    L'uomo appare sempre con un completo scuro, camicia bianca e cravatta, l'abbigliamento con cui l'artista userà sovente raffigurare i soggetti maschili dei suoi quadri.
    La letteratura sul pittore ha avanzato l'ipotesi che quest'abito sia una sorta di simbolo della mascolinità contemporanea, giacché è quello tipico dell'uomo d'affari.
    In questo senso si spiegherebbe l'inconsueta assenza di elementi espressivi caratterizzati nel volto dell'"Uomo in blu II".
    La figura infatti sembra materializzarsi dal buio dello sfondo, la cui profondità è resa evidente dalla struttura geometrica tridimensionale entro la quale è inserito il soggetto.
    L'uomo resta vagamente anonimo: quasi un simbolo, con l'abito che indossa.
     
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    Francis Bacon Studio per un ritratto II

    1953 - olio su tela - 152,7x116,9 - New York, The Collection of Samuel and Ronnie Heyman



    studioperunritratto5300



    Lo "Studio per un ritratto II" appartiene a una serie di otto quadri in cui figurano variazioni dello stesso soggetto: il papa, che era comparso nella produzione artistica di Bacon dopo che questi era stato ispirato dal famoso "Ritratto di Innocenzo X" di Velazquez.
    Con gli anni Sessanta l'artista abbandonò questo tema, ossessivamente presente nel decennio anteriore.
    E' Bacon stesso a dire "Ho pensato che [ il "Ritratto di Innocenzo X" di Velazquez ] fosse uno dei più grandi dipinti dell'arte mondiale, e l'ho usato in modo ossessivo. E ho tentato - con scarso, scarsissimo successo - di farne delle registrazioni: registrazioni distorte. Rimpiango di averlo fatto, perché ritengo che siano molto stupide...perché penso che quel dipinto fosse qualcosa di assoluto e che non fosse possibile fare niente di più al riguardo".
    La serie degli otto ritratti eseguiti intorno al 1953, tutti in collezioni americane, è ancora legata all'approfondimento del tema tratto da Velazquez, ma deriva anche dalle riflessioni dell'artista su alcune immagini di Pio XII in processione.
    A differenza dei precedenti dipinti con la raffigurazione del papa, in questo caso Bacon focalizza l'attenzione sul busto e la testa della figura tralasciando la rappresentazione della seduta del pontefice.
    Quest'ultimo con la mozzetta e lo zuccotto blu occupa il centro della tela ed è circondato da una struttura geometrica resa attraverso larghe pennellate gialle, che è stata riconosciuta dalla letteratura come la struttura di un letto collocato in uno spazio definito altrettanto geometricamente da profili bianchi che aprono la profondità uniformemente scura dello sfondo.
     
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