Posts written by Albrecht

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    Sono impazziti i Chapel Club: questa la premessa spontanea che sorge nell’approcciarsi all’atteso sophomore della band londinese. E badate, non tanto perché l’epica shoegaze di “Palace” è ormai (sigh!) un lontano ricordo, quanto perché raramente in tempi recenti abbiamo assistito a una così accanita distruzione della propria identità artistica originaria. La svolta synth-pop non è una novità per una band indie: carta che spesso viene utilizzata per diversificare il proprio sound, ha letteralmente rivitalizzato le carriere di Editors e Franz Ferdinand, per citare i due casi più noti.
    E’ decisamente più raro invece che una band, dopo appena due anni, arrivi a definire il proprio esordio “una sbobba per nostalgici post-punk pieni di dopamina”. Soprattutto quando questo esordio, anche da queste pagine, era stato lodato per aver costruito un impianto epico e drammatico, dando nuovo vigore al suono shoegaze. Probabilmente la band non ha retto il peso di un’accoglienza a dir poco tiepida (liquidato sbrigativamente dalla stampa britannica, ignorato del tutto negli Usa) e di un riscontro commerciale alquanto deludente (solo n° 31 nella classifica inglese).

    La sensazione che si prova ascoltando “Good Together” è allora quella può darci un amico che fa il simpaticone, ma poi ci respinge con stizza quando gli ricordiamo i bei tempi andati. In effetti, a dispetto dell’isteria pre-release, questo nuovo lavoro suona decisamente più solare e rilassato rispetto al debutto. E’ un disco perfetto per l’estate, sempre teso alla ricerca di spensieratezza nel songwriting e di freschezza in fase di produzione.
    Tutto bene, allora, se non fosse che nessuno si aspettava questo da loro. Qua e là la band sembra semplicemente allinearsi alle tendenze attuali senza la giusta convinzione: e così “Sequins”, in odor di Vampire Weekend, impallidisce di fronte a qualunque pezzo del loro ultimo album; altrove emergono rimandi alla scena indie-electro dello scorso decennio (Hot Chip, MGMT), tra drum machine gommose e tastiere retrò.

    Il baritono poderoso di Bowman è un elemento di cui non vi è più traccia: falsetti striduli e voci filtrate la fanno da padrone. Vedi, ad esempio, il bubblegum simil-rappato del singolo “Shy”, danzereccio e godibile, ma quasi parodistico messo nelle mani di una band che prima faceva tutt’altro. La stessa sensazione si prova in altri passaggi del disco (“Fruit Machine”, “Sleep Alone”) ovvero, tutto bello, se facciamo finta che sia un altro gruppo.
    Lo scarto tra “Palace” e “Good Together” è così profondo che è impossibile leggere quest’ultimo come la prosecuzione di un discorso: semmai, la sensazione che suggerisce è “cancelliamo il passato e ripartiamo da zero”. Per noi, invece, non è possibile azzerare la memoria, dimenticandoci del tutto ciò che ci aveva fatto apprezzare così tanto i Chapel Club.

    Il lascito più significativo di questa nuova direzione è comunque costituito dai dieci minuti epici della title track: prima parte in odor di inizio 00’s, voce filtrata su un tappeto sintetico arioso e nostalgico; poi la fuga house della lunga seconda parte, roba da perderci i sensi. Altro brano pregevolissimo è “Scared”, con la sua base quasi folktronica, un tripudio di melodia che si appiccica in testa all’istante.

    Le reazioni della stampa britannica a “Good Together” evidenziano un lievissimo miglioramento rispetto a “Palace”, ma siamo lontani da qualunque tipo di acclamazione. Se il loro scopo era ottenere un maggiore consenso, è evidente che il gioco non sia valso la candela. Viene infatti da chiedersi a cosa sia servito rifare da capo la propria immagine per alzare di mezzo voto i vari giudizi. La speranza è che la band a questo punto non si perda, come capita spesso nello spietato ingranaggio della scena indie britannica.
    Non chiediamo di tornare tout-court alle atmosfere dell’esordio, ma quantomeno si spera di non ritrovarsi di nuovo sperduti all’ascolto dei loro futuri lavori.

    Tracklist

    Sleep Alone
    Sequins
    Shy
    Jenny Baby
    Wordy
    Scared
    Fruit Machine
    Good Together
    Force You
    Just Kids



    ondarock

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    Anteprima stampa lunedì 24 giugno 2013, ore 12.00
    Inaugurazione lunedì 24 giugno 2013, ore 18.30

    In occasione dell’Anno Culturale Ungheria-Italia 2013, lunedì 24 giugno si inaugura presso la Galleria nazionale d’arte moderna la mostra Il Tempo della modernità. Pittura ungherese 1905-1925, a cura di Mariann Gergerly con la collaborazione di György Szücs. L’esposizione è realizzata dalla Galleria Nazionale Ungherese di Budapest (Magyar Nemzeti Galéria).

    Attraverso oltre 140 tra quadri, opere su carta, fotografie e documenti, la mostra presenta l’arte ungherese nel tumultuoso periodo storico che corrisponde al primo quarto del Novecento nel suo incontro con la modernità: dal neoimpressionismo alle avanguardie, passando per il cosiddetto Fauvismo ungherese.

    Modernità e tradizione, avanguardia e folklore, suggestioni straniere e atmosfere locali: sono questi i due poli intorno ai quali gravita l’esposizione, articolata in sei sezioni dedicate ognuna ad uno dei momenti salienti dell’”epoca d’oro” dell’arte ungherese. Sono gli anni in cui rientra da Parigi il “Nabis ungherese” József Rippl-Rónai, in cui si cominciano a conoscere le canzoni popolari raccolte da Béla Bartók e si pubblicano nuove riviste di arte e letteratura. In quel tempo irrompono sulla scena artistica i pittori che a Parigi avevano seguito gli insegnamenti di Matisse e che - a contatto con l’esperienza della pittura en plein air promossa nella colonia di pittori di Nagybánya - danno vita al “Gruppo degli Otto”. All’esuberanza cromatica degli “Otto” si affianca il rigore intellettuale del costruttivismo ungherese, che si sviluppa al di fuori dei confini nazionali dopo la caduta della Repubblica Ungherese dei Soviet. La mostra approfondisce

    inoltre i significativi rapporti con l’Italia. Il più importante è il rapporto con il Futurismo, presentato al meglio a Budapest già nel 1913 con una celebre mostra, mentre negli anni venti è la tensione verso il revival classico ad accomunare le ricerche di molti artisti di entrambi i paesi.
    La curatela della mostra è affidata a Mariann Gergely, con la collaborazione di György Szücs, curatore anche del catalogo; responsabile del progetto architettonico è Zsolt Vasáros. Commissario interno della mostra romana è Martina De Luca, storico dell’arte della Galleria nazionale.
    La mostra è realizzata grazie al sostegno del Fondo Nazionale Culturale e del Ministero delle Risorse Umane d’Ungheria.

    INFORMAZIONI
    Curatore Mariann Gergely con la collaborazione di György Szücs
    Martina De Luca (GNAM)
    Ingresso per disabili: via Gramsci 73
    Orari di apertura Aperto al pubblico dal 25 giugno 2013 martedì - domenica dalle 10.30 alle 19.30 (la biglietteria chiude alle 18.45)
    Chiusura il lunedì
    Biglietti ingresso intero: euro 12,00
    Museo e mostra ridotto: euro 9,50 (cittadini dell’unione Europea di età compresa tra i 18 e i 25 anni;
    docenti delle scuole statali dell’Unione Europea)
    ridotto speciale solo mostre: euro 7,00 (minori di 18 e maggiori di 65 anni)
    gratuito museo: minori di 18 e maggiori di 65 anni
    Informazioni tel. 39 06 32298221 www.gnam.beniculturali.it

    Informazioni Evento:

    Data Inizio:25 giugno 2013
    Data Fine: 15 settembre 2013
    Luogo: Roma, Galleria Nazionale d’arte moderna e contemporanea
    Telefono: 06 32298221
    E-mail:
    Sito web: www.gnam.beniculturali.it

    Dove:

    Roma, Galleria Nazionale d’arte moderna e contemporanea
    Città: Roma
    Indirizzo: Viale delle Belle Arti 131
    Provincia: (RM)
    Regione: Lazio
    Telefono: 06 32298221
    Sito web: www.gnam.beniculturali.it

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    Tiziano Vecellio - Polittico Averoldi

    1520-1522 - olio su tavola - 278x292 cm - Brescia, Collegiata dei Santi Nazaro e Celso


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    Passate indenni attraverso le radicali modifiche della cornice e dell'intera chiesa in cui sono conservate, le cinque tavole del polittico commissionato dal vescovo Altobello Averoldi - legato pontificio a Venezia - costituiscono una pagina forse un po' sottovalutata della produzione del maestro cadorino. La realizzazione del polittico è stata complessa, dato che una prima versione del pannello con san Sebastiano venne offerta nel 1520 ad Alfonso d'Este, per placarne l'irritazione suscitata dalla ritardata conclusione dei Baccanali. Dopo qualche tentennamento Alfonso rifiutò la proposta, anche per non inimicarsi l'influente prelato. Dal canto suo, anche Averoldi cominciò presto a lamentarsi per l'inosservanza dei tempi di consegna, e Tiziano portò a termine il polittico collocato nella chiesa bresciana nel 1522.
    La molteplicità un poco primitiva della divisione in parti viene superata dalla intensità dei singoli scomparti. Se le figure dell'Annunciazione sono evidentemente la pietra di fondazione della scuola bresciana del Cinquecento, le tavole maggiori propongono - sullo sfondo di un'eccezionale evocazione paesaggistica - un notevole assortimento di citazioni e confronti. La Resurrezione raffigura al centro il Cristo risorto con il vessillo crociato dispiegato nel vento; le pie donne, che appena si intravedono più in basso, si recano al sepolcro - secondo il racconto evangelico - all'alba. A sinistra troviamo il committente in cappa magna inginocchiato, cui fanno da comprimari i santi - in armatura - a cui è intitolata la chiesa. Lo scomparto di destra è dedicato a san Sebastiano che poggia un piede su un rocchio di colonna su cui compare l'iscrizione TICIANUS FACIEBAT MDXXII mentre poco più dietro - quasi in miniatura - un angelo scopre le ferite a san Rocco inginocchiato. I due scomparti superiori rappresentano l'Annunciazione. Ha destato curiosità la somiglianza fisica tra Cristo risorto e san Sebastiano, ulteriormente sovrapponibile con le presunte fattezza di Tiziano trentenne.
    Il saggio di Rona Goffen, Renaissance rivals del 2002, propone l'interpretazione del polittico bresciano come guanto di sfida gettato da Tiziano ai cultori di Michelangelo, di Raffaello e dell'antico. Dopo aver notato che la semplice ma bel leggibile firma di Tiziano si trova sul rocchio di colonna sotto il piede di san Sebastiano, e che questo supporto di pietra allude alle sculture di Michelangelo, la studiosa elenca vari riferimenti, sovrapposti e riassorbiti nell'insieme grazie a una raffinata operazione di contaminatio: il ricordo di Giorgione per il pannello di sinistra con i santi Nazaro e Celso, lo Schiavo morente di Michelangelo per la figura di san Sebastinao, il gruppo ellenistico del Laoconte, la Trasfigurazione di Raffaello e la derivazione di Sebastiano del Piombo per il Cristo che si libra nel pannello centrale.
    Un ulteriore parallelo raffaellesco, con la Liberazione di san Pietro dal carcere, viene proposto per l'effetto di luce della tavola maggiore. Gli sguardi si rincorrono, dal Cristo al san Sebastiano, dal soldato al Cristo, dall'angelo all'Annunciata cosi come i gesti che si contrappongono. Le braccia aperte dell'angelo collimano con quelle opposte di Cristo - come se fosse imminente, tra i due, un abbraccio - e rispondono anche, a distanza, a quella di san Sebastiano cosicché avviene fra le tre figure una chiusura circolare di spazio quasi un'incatenata danza.
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    Pieter Brueghel il Vecchio (Pieter Bruegel the Elder) - Fienagione

    1565 - olio su tavola - 117x161 cm - Praga, Národní Galerie


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    La scena è ambientata in uno dei primi mesi estivi, giugno o luglio, con un gruppo di contadini intenti al taglio e la raccolta del fieno. In primo piano, nell'angolo inferiore sinistro, un uomo sta affilando la falce e, al centro, tre ragazze si dirigono verso di lui; poco dietro, a destra, quattro portatori di ceste vanno nella direzione opposta, assieme a una contadina a cavallo. Il gruppo passa tra ceste piene di baccelli e frutti rossi, forse corbezzoli, e un'edicola della Madonna, posta sul ciglio della strada. Il piano intermedio, dominato da un luminoso giallo, mostra vasti campi dove i contadini si dedicano al taglio, la raccolta e il trasporto del fieno con un carro.
    Nello sfondo si vedono alcune case, un villaggio in collina e, a sinistra, uno sperone roccioso con un castello su una delle sommità; a destra invece la veduta si perde a vista d'occhio con la vallata di un fiume che arriva fino al mare. I differenti piani sono esaltati dai contrasti coloristici di toni caldi (primo e medio piano) e freddi (sfondo).
    Figure umane e natura appaiono perfettamente fuse e domina un senso di tranquillità, senza quell'incedere frettoloso dei lavoranti che spesso si incontra nei lavori di Bruegel.
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    Tiziano Vecellio - Pala Gozzi

    1520 - olio su tavola - 312x215 cm - Ancona, Pinacoteca civica Francesco Podesti


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    Madonna col Bambino, San Francesco, San Biagio e il donatore Luigi Gozzi
    E’ la prima opera di Tiziano pervenuta datata.
    Nel cartiglio posto al centro, in basso, si legge "Aloyxius gotius Ragusinus/Fecit fieri/MDXX/Titianus Cadorinus pinsit".
    Luigi Gozzi, ricco commerciante raguseo operoso ad Ancona, commissionò il quadro per la chiesa di San Francesco ad Alto, dove rimase fino all'unità d'Italia. Isolato a sinistra, alla base dell'ideale piramide culminante nel gruppo della Vergine col Bambino, San Francesco si volge verso il gruppo celeste portando al petto la mano sinistra stimmatizzata, mentre con la destra regge una sottile croce. I giovanili tratti del viso, difformi da quelli tradizionali di un uomo fragile e malato, sembrano apparentarsi con quelli di San Biagio (protettore di Ragusa) che, sulla destra, indica col dito puntato e con lo slancio di tutto il corpo, pur paludato dalle pesanti vesti, la visione della Madonna.
    Il pathos che si palesa nell'ispirato atteggiamento di San Francesco e nella franca sollecitudine di San Biagio s'affina nella figura di Luigi Gozzi, uomo che si presume avvezzo all'arroganza della piazza e del denaro e che qui è ritratto nella dovuta umile posa, quasi volesse adattare alla massima compunzione del fedele l'inopportuna sua natura di grande pratico.
    L'inserzione del bacino di San Marco da un lato segna il discrimine tra cielo e terra, dall'altro offre un luogo reale dell'agire umano, nel quale realizzare la salvezza o la perdizione (una patente simbologia soteriologica è offerta dalla pianta di fico, strumentale peraltro alla profondità spaziale della composizione).
    Il retro della tavola presenta una serie di teste schizzate a chiaroscuro con la matita e in parte ombreggiate a pennello, probabili autografi tizianeschi.
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    Inaspettato. Con "Kveikur" ("stoppino"), a un anno esatto da "Valtari", i Sigur Rós lasciano i loro fan di stucco, e tutto si fa forse più chiaro. Da un lato l'abbandono dello storico tastierista Kjartan, dall'altra una sorta di speranza che si proietta verso nuovo inizio. Quasi fosse una storia che si ripete, il trio - che si fa collettivo tanto in studio quanto nella dimensione live - rinfocola una fiamma che pareva destinata a esaurirsi, pubblicando un album che profuma di urgenza, forse come solo "()". Ma se nel capolavoro di ormai undici anni fa agli stati di tensione della seconda metà dell'album si contrapponeva un immobilismo impercettibile delle prime quattro tracce, ecco che invece "Kveikur" si pone sin da "Brennestein" come l'album "rock" degli islandesi. Anche se, a ben sentire, ogni etichetta coglierebbe solo parzialmente la svolta dei Sigur Rós.

    Ecco che "Kveikur", nei suoi mille rivoli e declinazioni, svolge una storia quadrata, definita. A chi, con le solite banalizzazioni del caso, definì musica per folletti tutto ciò che proveniva e proviene dall'Islanda, ecco che i Sigur Ros rispondono idealmente. E lo fanno cacciando fuori tutta la grinta che sia in "Með Suð Í Eyrum Við Spilum Endalaust" (il loro album freak?) che appunto nel loro disco ambient "Valtari", era rimasta soffocata. Il glucosio, lo zucchero, mai come ora viene dosato secondo nuove modalità. Sia chiaro: la loro cifra stilistica - inimitabile - non viene qui meno, ma emerge tutto quel che nei Sigur Rós non avevamo mai visto sviluppato e sintetizzato con questo effetto.

    Struttura e colonne portanti diventano le chitarre, i riverberi, i climax, muri di suono trascinanti, mai banali. E l'elettronica, l'elemento ritmico, la batteria che calpesta vigorosa ogni cosa gli si pari d'innanzi. L'iniziale "Brennestein" traccia le coordinate di questo nuovo corso. Ci riconosci la cattiveria di una "Untitled #8", salvo virare il tutto su un versante marcatamente elettronico (cosa mai nemmeno osata prima dagli islandesi). Tutta quella dolcezza, loro marchio di fabbrica, viene qui rimodulata secondo coordinate completamente nuove e, cosa non da poco, senza risultare stucchevoli. "Isjaki", per dire, fa rivivere gli scenari di "Hoppipolla", ma con quel quid che la rende perla purissima e spontanea.

    Nei vocalizzi di Jonsi in splendida forma e negli impeti solo accennati di "Yfirbord", nei carillon onnipresenti in "Stormur" che s'accende in un dolce finale strumentale, nella malinconia dilagante di "Hrafntinna", si riconoscono tutte le peculiarità di questo nuovo corso. E, quando accelerano, riescono a far male. "Rafstaumur", nel suo climax aggressivo, s'accende impetuosa (notate forse analogie con "Sweet Love For Planet Earth" dei Fuck Buttons, nella seconda metà?). Nell'inno della title track "Kveikur" si rincorrono gli elevamenti al cubo di quella ferocia compositiva. Fuoco che arde, spruzzi dai geyser che s'elevano verso il cielo, in un gioco in cui la tangente post-rock si tocca quasi col doom. Gli echi lontani e il piano di "Var" spengono quella fiamma inferocita, la sedano, come la quiete dopo la tempesta.

    Incontro tra la purezza pop di "Takk" e "()", "Kveikur" è la nuova via dei Sigur Rós verso una forma di post-rock elettrico che incontra il pop. Non tradiscono i fan, ma si proiettano in una dimensione, se possibile, ancor più moderna e universale. Non si legga in tutto questo una volontà di aprirsi, quanto un mettersi in discussione. Nonostante in certi frangenti si abbia la sensazione che procedano col pilota automatico, la prospettiva del rischio ripaga anche quei pochi momenti di stanca. Ritornano a loro modo giovani e punk, recuperando una freschezza d'intenti che pareva essersi un po' perduta. Giocano l'asso che nessuno s'aspettava avessero, vincono la partita nella maniera meno scontata e più difficile. Sorprendendo.

    Tracklist

    Brennisteinn
    Hrafntinna
    Isjaki
    Yfirbord
    Stormur
    Kveikur
    Rafstraumur
    Bláprádur
    Var

    ondarock

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    Il 18 giugno alle ore 16,00 aprirà al pubblico 'Quale Liberty per il Museo Andersen?'.

    L'allestimento estivo del Museo Andersen propone un punto di vista sui generis del villino Helene, una lettura privilegiata, attraverso il gusto Liberty, dell'intera decorazione e del complessivo patrimonio conservato, con opere sia di Hendrik che del fratello Andreas. L'interpretazione che ne esce fuori si concentra intorno all'accezione di arte come esperienza totale, di carattere etico e culturale, nell'identificazione stessa di arte e vita.

    Le scelte artistiche e architettoniche rispecchiano i gusti americani molto vicini alle testimonianze di personaggi più famosi come Whistler e Sargent, ma sono in particolare un omaggio agli ideali dell'amatissima Olivia, nume tutelare, prototipo femminile di donna alla ricerca di una totale e sincera emancipazione dalla formalità dell'alta borghesia bostoniana.

    'Quale Liberty per il Museo Andersen?' fa parte di una più ampia ricerca di documentazione digitale promossa dal progetto Liberty Partage Plus (www.gnam.beniculturali.it)

    Informazioni Evento:

    Data Inizio:18 giugno 2013
    Data Fine: 08 settembre 2013
    Costo del biglietto: gratuito; Per informazioni 06 3219089
    Prenotazione: Nessuna
    Luogo: Roma, Museo Hendrik Christian Andersen
    Orario: mar- dom 9.30 - 19.30 (ultimo ingresso ore 18.30)
    Telefono: 06 3219089
    E-mail: [email protected]
    Sito web: www.museoandersen.beniculturali.it

    Dove:

    Roma, Museo Hendrik Christian Andersen
    Città: Roma
    Indirizzo: Via Pasquale Stanislao Mancini
    Provincia: (RM)
    Regione: Lazio
    Telefono: 06 3219089
    E-mail: [email protected]
    Sito web: www.museoandersen.beniculturali.it

    beniculturali
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    Tiziano Vecellio - Pala Pesaro

    1519-1526 - olio su tela - 478x268 cm - Venezia, Basilica di Santa Maria Gloriosa dei Frari


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    La Pala Pesaro, opera grandiosa che oggi è conservata nella chiesa di Santa Maria Gloriosa a Venezia, fu commissionata a Tiziano dal vescovo Iacopo Pesaro e segnò una svolta nella rappresentazione della pala d’altare. Dipinta tra il 1519 e il 1526, si colloca a cavallo tra il periodo rinascimentale e manieristico di Tiziano che, come Michelangelo, grazie alla notevole durata delle sua vita, modificò più volte il suo modo di dipingere.
    Una prova di questa sua proiezione verso il manierismo è fornita dalla composizione. Tiziano infatti, non rispetta i canoni rinascimentali di simmetria ma distribuisce le figure su una diagonale immaginaria, che parte dall'angolo in basso a sinistra e termina a destra a metà del lato lungo della Pala, con l’immagine della Vergine. In questo modo l’occhio, che solitamente è abituato ad un percorso da sinistra verso destra, è ulteriormente guidato dalla diagonale, che lo porta con naturalezza verso la figura più importante della composizione.
    La Madonna, come in ogni Sacra Conversazione, di cui questo dipinto è un esempio, siede in trono con il Bambino in braccio ed è circondata da alcuni santi, in questo caso San Francesco d’Assisi, San Pietro e Sant’Antonio da Padova. Più in basso, inginocchiati, si trovano anche alcuni membri della famiglia del committente, i Pesaro appunto, una delle più influenti della Venezia dell’epoca.
    L’impaginazione spaziale dell’intera opera è scandita, oltre che dalla diagonale ascensionale, anche dalle colonne, di un genere indefinito, che si perdono verso l’alto. Il taglio delle colonne e di alcuni personaggi della famiglia, situati ai bordi, evidenzia la volontà di Tiziano di rappresentare una piccola parte di una realtà più ampia.
    È probabilmente dovuta alla grande importanza che ricopriva la Pala d’Altare all'interno della chiesa per la contemplazione del fedele, la ricerca sulla percezione e l’attenzione ai particolari che Tiziano dimostra. Ogni singolo volto è infatti curato nei dettagli, dimostrazione delle grandi doti ritrattistiche del pittore, e nulla è lasciato al caso. Tutta la scena è intrisa di una grande naturalezza, che si nota ad esempio nella postura quasi noncurante di San Pietro che appoggia le chiavi al gradino, o nelle fattezze degli angeli che issano la croce, in cima al dipinto.
    Il colore e la luce, come in ogni esempio di pittura tonale veneta, assumono un ruolo fondamentale. Si può notare infatti una crescente luminosità che culmina col bianco del velo della Madonna e serve a dare importanza alla figura stessa.
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    La domanda che solitamente sorge spontanea, trovandosi al cospetto di un disco di sole cover è: "Perché?". Ecco, nel caso di questo "Unlearned" di Scott Matthew, basta la sola rilettura di "Love Will Tear Us Apart" dei Joy Division per prendere in considerazione l'intero pacchetto. Avete capito bene, la la più stucchevole, ridicola, colossale, fantastica, pacchiana, meravigliosa, pomposa, magniloquente, paradossale, sublime, vergognosa, istrionica, paradisiaca cover di sempre.
    Perché, messa nelle mani del songwriter di Queensland, Australia, spazza in un solo minuto tutte le altre rivisitazioni che avrete potuto sentire dai tempi di Paul Young in "No Parlez" (veramente terribile quella) in avanti. Matthew gli aggiunge un intarsio di piano preziosissimo dal vago sapore Susanna And The Magical Band, la allunga di un minuto e la rende così struggente, dolcissima, devastante.
    Alla fine dell'ora scarsa di registrazione in nostro possesso, "Unlearned" appare per quel che è: un'operazione coraggiosa, per un artista che avrebbe potuto continuare a giocare le carte della sua consolidata produzione. Invece no. Scott sforna quattordici cover apparentemente senza elementi in comune. Dai Bee Gees ai Radiohead, passando per i Jesus And Mary Chain, Janis Ian, Morrissey e Neil Young, l'umore dei riarrangiamenti è capace di costruire un perfetto monumento sonoro alla malinconia con il solo ausilio della sua personalissima timbrica e sensibilità interpretativa.
    Da "Smile" (scritta da Charlie Chaplin e originariamente interpretata da Nat King Cole) con l’inconfondibile voce di Neil Hannon dei Divine Comedy a duettare con Scott a "Help Me Make It Through The Night" di Kris Kristofferson, questa volta in duetto con il padre di Ian, tutto sembra costruire un affascinante itinerario alla scoperta delle zone d'ombra del background artistico del Nostro. Rod Stewart a John Denver compresi.
    Il codice espressivo di Scott Matthew è quello conosciuto, costruito sulla straziante malinconia, sulla beffarda autoironia e sul sottile filo che divide la commedia dal dramma, e il dramma dal melodramma. Il risultato è dannatamente eccellente. Le sue doti di ammaliatore scuotono, spaventano, ma stupiscono soprattutto. Quasi mai il racconto dell'interprete corre vicinissimo alla strada tracciata dall'autore ("Unlearned" non è un titolo a caso) per umore o durata, molto spesso la distanza è enorme, e il risultato è quasi irriconoscibile.
    Ma il risultato conduce volentieri in un'avventura ricca di sorprese ed emotivamente appagante. Prendete a titolo d'esempio "Darklands" dei Mary Chain. La versione originale qui perde il suo appeal 8o's à-la David Bowie berlinese e acquista appeal emotivo e letterario. Oppure la stupefacente "I Wanna Dance With Somebady" di Whitney Houston (mai retta, Whitney Houston), dove la partitura di piano annulla tutta la frivolezza synth-pop a vantaggio di una struttura à-la Baby Dee. Impensabile. Chi ama la regina del soul avrà da ridere. Le meraviglie di cui è in grado Scott Matthew, quindi, almeno per questa estate sembrano non essere ancora finite.
    Quasi dimenticavamo, per i completisti anche le bonus track della versione digitale sono da leccarsi i baffi: "Anarchy In The UK", "Shipbuilding", "Walk On By" e "Territorial Pissings".

    Tracklist

    To Love Somebody
    I Wanna Dance With Somebody
    Darklands
    Jesse
    Smile (feat. Neil Hannon)
    Help Me Make It Through The Night (feat. Ian Matthew)
    No Surprises
    L.O.V.E
    Love Will Tear Us Apart
    There`s A Place In Hell For Me And My Friends
    Harvest Moon
    I Don`t Want To Talk About It
    Total Control
    Annie`s Song

    ondarock

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    Pieter Brueghel il Vecchio (Pieter Bruegel the Elder) - Giornata buia

    1565 - olio su tavola - 118x163 cm - Vienna, Kunsthistorisches Museum


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    L'opera fa parte della serie dei Mesi, completata con sole cinque tavole e già in possesso di Niclaes Jonghelinck di Anversa. Appena un anno dopo, nel 1566, venne ceduta all'amministrazione cittadina e nel 1594 fu l'oggetto di un dono a Ernesto d'Asburgo.
    Non è chiaro quale mese rappresenti la Giornata buia, ma sicuramente è da riferire ai primi mesi invernali dell'anno, probabilmente gennaio-febbraio. In primo piano a destra un gruppo di contadini si appresta a finire il proprio lavoro di potatura e legnagione prima che la luce termini. Un uomo sta infatti tagliando i rami secchi o improduttivi di un albero e un altro li sta raccogliendo in fascine. Le tre figure più a destra sono invece dedite alla compagnia e all'allegria, un probabile riferimento al Carnevale: a tale periodo fanno pensare anche la corona di carta in testa al bambino che porta la lanterna e l'uomo che mangia le cialde. Più in lontananza, nell'angolo sinistro, una donna e un bambino conducono per mano un uomo all'osteria "Sotto le stelle", come riporta l'insegna. Vi si vede anche un suonatore e un contadino che sta appoggiato con la faccia al muro, forse ubriaco; un altro si trova accovacciato vicino al suo carro, forse mentre vaglia il grano, e uno sta riparando il tetto di casa.
    Alle spalle del villaggio si apre un vastissimo paesaggio, con una baia dove le barche sono in difficoltà per via dei flutti del mare, essendo appena passata una tempesta. Il cielo è denso di nubi, ma sulla sinistra la luce si rischiara, presso lo straordinario paesaggio di montagne innevate punteggiate da castelli.
    Di incredibile suggestione è la resa cromatica del dipinto, con la contrapposizione tra i toni caldi del bosco e del villaggio e quelli freddi, gelidi, dell'acqua, del cielo e delle montagne. Rimandi incrociati qua e là animano la scena, come i bianchi che compaiono sui monti, sul solaio della casa rustica a destra, nel carretto e nelle vesti di alcuni dei personaggi in primo piano.

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    Le montagne innevate



    Edited by Albrecht - 17/6/2013, 15:25
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    Tiziano Vecellio - Festa degli amorini

    1518-1519 - olio su tela - 172x175 cm - Madrid, Museo del Prado


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    Una schiera di amorini è radunata per fare un offerte di frutta per alla dea Venere, la cui statua campeggia in alto a destra. Essi brulicano in atteggiamenti giocosi nella metà inferiore, mentre alcuni si sono levati in volo per cogliere i frutti, delle pesche, dagli alberi. In primo piano alcuni si scambiano tenere effusioni, in omaggio alla dea dell'amore, mentre uno di loro sta per colpire una puttina che sorride divertita. Molti degli amorini citano celebri statue classiche. Due ninfe, a destra, presenziano la scena. Una tiene in mano uno specchio, probabile rimando alla bellezza.
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    Tiziano Vecellio - Assunta

    1516-1518 - olio su tavola - 690x360 cm - Venezia, Basilica di Santa Maria Gloriosa dei Frari


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    Indiscutibile e straordinario capolavoro dell'artista, fu un'opera così innovativa da lasciare attoniti i contemporanei, consacrando definitivamente Tiziano, allora poco più che trentenne, nell'Olimpo dei grandi maestri del Rinascimento.
    La pala, alta quasi sette metri, ha uno straordinario legame con l'architettura gotica della basilica, preannunciandosi fin da lontano al termine della prospettiva delle navate con archi ogivali e del coro ligneo intagliato quattrocentesco. In tale senso lo squillante rosso della veste della Vergine e di alcune vesti degli apostoli sembra riflettersi nei mattoni delle pareti, accendendoli.
    Tutto si concentra sul moto ascensionale di Maria, sulla sfolgorante apparizione divina e sullo sconcerto creato da tale visione. I momenti dell'assunzione e dell'incoronazione sono accostati con originalità. In tre registri sovrapposti (gli Apostoli in basso, Maria trasportata su una nube spinta da angeli al centro e Dio Padre tra angeli in alto) sono collegati da un continuo rimando di sguardi gesti e linee di forza, evitando però qualsiasi schematismo geometrico. In basso infatti il monumentale apostolo vestito di rosso, di spalle in primo piano, fulcro visivo della porzione terrena del dipinto, protende in alto le braccia verso il corpo di Maria, secondo una doppia diagonale rafforzata dai due angioletti i cui corpi si dispongono in parallelo.
    Egli si trova nella stessa posizione che avrebbe assunto per scagliare Maria in cielo, amplificando il senso di moto ascensionale. Le due vesti rosse appaiono come legate lungo un'unica fascia, rotta poi dal manto blu scuro di Maria che, gonfiato dal vento, taglia perpendicolarmente la prima diagonale e si sviluppa nella posizione delle braccia sollevate di Maria, in scorcio verso destra, che conducono direttamente, assieme al suo sguardo rivolto verso l'alto, verso l'apparizione dell'Eterno, il cui piano, ancora una volta è sfasato.
    Si crea così una sorta di movimento ascensionale, di straordinario dinamismo. La composizione può essere letta anche come una piramide, schema prediletto dai pittori del Rinascimento da Leonardo in poi, con alla base i due apostoli vestiti di rosso e al vertice la testa di Maria. Inoltre, la centina dell'opera è proseguita idealmente dalla curva semicircolare formata dalle nubi che sorreggono la Vergine: si forma così una sorta di circolo ideale che separa il mondo terreno degli Apostoli da quello divino della Vergine e Dio.
    La Vergine non ha ancora completato la sua ascesa all'Empireo, ed è per questo che il suo volto non è totalmente illuminato dalla luce divina: l'ombra infatti richiama il mondo terreno, cui la Vergine rimane legata fintanto che non abbia completato la salita.
    L'apparizione dell'Eterno sostituisce quella tipica dell'iconografia con Gesù Cristo. Esso appare in scorcio, avvolto in un mantello rosso, affiancato da due angeli che reggono le corone per Maria.
    La sua figura cita, seppure rielaborandola con notevole libertà, quella del Dio creatore negli affreschi di Michelangelo sulla volta della Cappella Sistina.
    La figura del Creatore appare in controluce, ciò per due motivi fondamentali: innanzitutto, per garantire una fonte di luce autonoma al dipinto; in secondo luogo, ciò dona a Dio l'aspetto di una visione soprannaturale dai contorni confusi.
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    Tiziano Vecellio - Flora

    1515 circa - olio su tela - 79x63 cm - Firenze, Uffizi


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    Una donna dalla bellezza ideale è ritratta a mezza figura, vestita di un'ampia camicia pieghettata che le ricade dalla spalla sinistra, scoprendole quasi un seno. Si tratta di un genere di largo successo in area veneziana derivato dal prototipo della Laura di Giorgione. Con una mano tiene il mantello rosato, che evidenzia l'incarnato nudo soprastante, con l'altra una manciata di foglie e fiori. Fisicamente si tratta della stessa donna dai capelli biondi e crespi fu il soggetto di una serie di dipinti databili negli stessi anni: la Donna allo specchio al Louvre, la Vanità a Monaco, la Salomè della Galleria Doria Pamphilj, la Violante , la Giovane donna con veste nera di Vienna e la Venere Anadiomene di Edimburgo. Si trattava comunque di una consuetudine per la bottega dell'artista (verificabile ad esempio anche per la serie legata alla "Bella") di creare opere simili con varianti dai medesimi studi, se non proprio dallo stesso cartone. La stessa donna appare inoltre, simile, nel personaggio vestito dell'Amor Sacro e Amor Profano e in alcune Sacre conversazioni. Tali figure sono entrate a far parte di un immaginario collettivo frequente nell'arte veneta dell'epoca, di una femminilità prosperosa e remissiva.
    Ampiamente dibattuto è stato il significato dell'immagine: forse una cortigiana, come farebbero pensare le iscrizioni sulle incisioni seicentesche, forse un simbolo dell'amore nuziale (Panofsky), anche se l'abito che essa indossa non è una veste di una sposa, ma una tunica classica reinterpretata in epoca rinascimentale. La manciata di fiori primaverili nella mano destra l'ha fatta di volta in volta interpretare come Flora, come dea della Primavera o della vegetazione. I fiori, come attributo di Venere, si trovano in posizione simile anche nella Venere di Urbino. Le dita aperte a forbice sarebbero un segnale della promessa sposa, che presto perderà la verginità e prenderà l'anello del matrimonio; un anello di fidanzamento si vede invece nell'altra mano. Secondo Cavalcaselle e Crowe essa rappresentava "qualcosa di classico che ricorda l'arte antica". Possibile è che la fanciulla fosse, al pari dell'Amor sacro e Amor profano, un esempio di combinazione tra castità (pudicitia) e sensualità (voluptas) propria delle spose, come suggerirebbero i seni, uno coperto dalla camicia e uno scoperto.
    Lo stile della Flora mostra quell'armonia di colori, morbida e sontuosa allo stesso tempo, e di composizione tipica detta "classicismo cromatico" di Tiziano, esaltante la bellezza del soggetto e con una forte valenza sensuale. La figura è collocata nello spazio senza il ricorso a uno schema rigidamente frontale, ma in maniera più dinamica, col corpo florido della donna che suggerisce un movimento circolare attraverso il movimento delle mani e delle spalle, nonché la testa leggermente reclinata.
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    Tiziano Vecellio - Amor sacro e Amor profano

    1515 circa - olio su tela - 118x279 cm - Roma, Galleria Borghese


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    L'Amor Sacro e l'Amor Profano, capolavoro di Tiziano all'età di circa 25 anni, nacque in occasione delle nozze di Nicolò Aurelio, veneziano (stemma sul sarcofago) e Laura Bagarotto nel 1514. La candida sposa, vicina ad Amore, viene assistita da Venere in persona. Le due donne di simile perfezione simboleggiano l'una la "felicità breve in terra" con l'attributo del vaso di gioie e l'altra la felicità eterna e celeste con in mano la fiamma ardente dell'amore di Dio.
    Il titolo è frutto di un'interpretazione del tardo '700 secondo una lettura moralistica della figura svestita, mentre nell'intento dell'autore, al contrario, c'è l'esaltazione dell'amore nella sua forma terrestre e celeste. Infatti nella visione neoplatonica, condivisa da Tiziano e dalla cerchia dei suoi amici, la contemplazione della bellezza del creato era finalizzata a percepire la perfezione divina dell'ordine del cosmo.
    Con questa raffigurazione dell'Amore in aperta campagna Tiziano ha superato la poetica delicata e lirica di un Giovanni Bellini o di un Giorgione, attribuendo alle figure una grandiosità all'antica. La fama universale dell'opera del Tiziano è confermata ancora nel 1899, quando i banchieri Rotschild offrirono un prezzo maggiore per questo dipinto rispetto al valore stimato allora per tutta Villa Borghese comprese le opere d'arte (4.000.000 rispetto a 3.600.000 lire), ma l'Amor Sacro e l'Amor Profano di Tiziano è rimasto vincolato alla Galleria Borghese, quasi metafora della stessa.

    Edited by Albrecht - 11/6/2013, 15:12
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    Pieter Brueghel il Vecchio (Pieter Bruegel the Elder) - Mietitura

    1565 - olio su tavola - 118x160,7 cm - New York, Metropolitan Museum


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    "I Mietitori" fa parte di un ideale ciclo di sei dipinti (ma solo cinque di questi sono sopravvissuti) rappresentante le stagioni. Nel contesto di questa serie, “I Mietitori” rappresenta, probabilmente, il mese di agosto e settembre.
    La scena descrive il lavoro e il riposo in una giornata estiva, probabilmente di agosto. In primo piano due contadini tagliano le lunghe spighe di grano con le falci, mentre un terzo attraversa il campo tramite un varco, portando una brocca e dirigendosi verso il pero a destra, dove alcuni contadini si stanno riposando, mangiando e bevendo all'ombra. Più dietro, a destra, alcune donne legano i covoni e raccolgono le spighe tagliate. Alla staticità delle figure della metà destra fanno contrasto quelle di sinistra, immerse nel colore uniforme delle spighe, che amplifica i loro gesti. Il contadino dormiente anticipa la posa di un personaggio del Paese della cuccagna.
    Il giallo delle messi del grano domina gran parte della scena, mentre lo sfondo ha tonalità verdi e verdastre, oltre al chiarissimo grigio-azzurro del cielo. Si intravede una chiesetta tra le fronde della vegetazione e, più lontano, un villaggio e un castello. Anche lo sfondo è popolato da piccole figure, con un carro che trasporta il fieno, e altri contadini che si dedicano ad attività ricreative. Sulla collina a destra, oltre il confine dei prati centrali, altri campi si perdono in lontananza. Al centro poi la veduta di un bacino sfuma nella vapore della calura estiva.
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