Posts written by Albrecht

  1. .

    Tiziano Vecellio - Bacco e Arianna

    1520-1523 - olio su tela - 176,5x191 cm - Londra, National Gallery


    662px-Titian_-_Bacchus_and_Ariadne_-_Google_Art_Project



    Il dipinto è una delle tre tele che Alfonso I commissionò a Tiziano per il Camerino adiacente alla camera da letto situata nella via Coperta, termine con il quale si designa la sequenza di stanze che collegava palazzo Ducale al Castello. I dipinti erano a soggetto mitologico, celebrativo dell’amore pagano. L’anno della commissione al pittore veneziano si fa risalire al 1520 circa, dopo la morte di Raffello, a cui Alfonso I, nel 1514, aveva chiesto di raffigurare un “Trionfo di Bacco in India”, opera mai portata a termine, ma della quale il Duca, nel 1517, ricevette un disegno. Un primo abbozzo, probabilmente di mano di Raffaello, si trova ora alla Pinacoteca Albertina di Vienna (SR 533, inv. 444). Sul disegno, vent’anni dopo (1540 circa) lavorò Garofalo, eseguendo per Ercole II, che intendeva decorare le Camere Nuove di Corte, il grande “Trionfo di Bacco” , ora conservato a Dresda. La morte di Raffaello ovviamente interruppe il progetto e Alfonso I indirizzò la sua scelta su Tiziano, che portò a termine il “Bacco e Arianna” nel 1523, dopo un lungo periodo di lavoro contraddistinto dalla numerosa corrispondenza tra il duca e il suo legato a Venezia, Jacopo Tebaldi, incaricato di spronare l’artista, impegnato in altri lavori, a terminare l’opera. Il 30 gennaio 1523 la tela fu trasportata da Venezia a Ferrara lungo il fiume Po.
    Al centro dell’opera è il giovane Bacco, coronato da un serto di foglie di vite e drappeggiato in un manto rosa; con un balzo egli cerca di scendere dal carro trainato da alcuni ghepardi mentre lo sguardo è rivolto ad Arianna che lo ricambia girando il capo ma mantenendo il corpo verso l’orizzonte, ove si intravvede una nave. La veste della giovane è azzurra e bianca, stretta da una fusciacca rossa, ai suoi piedi è un vaso di bronzo rovesciato su un drappo giallo. In primo piano un cane nero ringhia verso un piccolo satiro intento a trascinare la testa di un vitello; al centro, si distingue un uomo il cui corpo è avvinghiato da serpenti e al suo fianco è una menade, con vesti blu e arancio. La sacerdotessa suona due cembali e guida un corteo composto da un’altra menade che suona un tamburello e da un satiro che con un mano regge un bastone contornato da foglie di edera e con l’altra alza verso il cielo la zampa di un’animale. In fondo si intravvede giungere Sileno addormentato sul dorso di un asino, sorretto da altri satiri. La scena si svolge vicino ad un bosco prospiciente il mare e un agglomerato di case in lontananza. Nella parte in alto a sinistra del cielo si distingue una corona formata da stelle.
  2. .

    Pieter Brueghel il Vecchio (Pieter Bruegel the Elder) - Danza nuziale

    1566 - olio su tavola - 119x157 cm - Detroit, Detroit Institute of Arts


    791px-Pieter_Bruegel_de_Oude_-_De_bruiloft_dans_%28Detroit%29



    In una radura al centro di un villaggio è ambientata una frenetica festa nuziale, rappresentata con l'orizzonte altissimo, che si trova oltre il bordo della tavola. Tutta la superficie è quindi dedicata alla rappresentazione dei personaggi, disposti con equilibrio. Numerose coppie si tengono per le braccia, alzandole al cielo, al suono della zampogna suonata dall'uomo panciuto, in primo piano a destra. Le coppie in primo piano fanno passi di danza diversi, ma sempre molto concitati, e sulla destra una si scambia anche un bacio.
    L'artista dimostrò tutto il suo interesse verso il mondo rurale della sua terra natale, divertendosi a rappresentare nel dettaglio la giornata di festa e il divertimento frenetico. Vi si vedono persone che si affollano fuori da una capanna, probabile sede del banchetto nuziale, altre che mangiano, che brindano o che fanno scherzi. Pare quasi di percepire l'atmosfera gioiosa e la musica ritmata, grazie al dinamismo della scena. Dominano i toni caldi del rosso, del giallo e del bruno, sui quali spiccano i bianchi delle cuffie e dei grembiuli delle donne.
  3. .

    Tiziano Vecellio - Uomo dal guanto

    1523 ca. - olio su tela - 100x89 cm - Parigi, Louvre


    497px-Titien-homme-au-gant-Louvre



    Sul marmo dove la figura poggia il braccio sinistro c'è la firma, TICIANUS; ma la T è di colore grigio scuro, mentre il resto della parola è in grigio azzurro. Il personaggio ritratto non è stato sicuramente identificato: forse si tratta di Girolamo Adorno, genovese, inviato da Carlo V a Venezia. L'opera, che proviene dalla galleria dei Gonzaga, nel 1527 divenne proprietà di Carlo I d'Inghilterra, che poi la vendette al banchiere Jabach, quindi passò a Luigi XIV e poi al Louvre. Il giovane ha uno sguardo intenso e malinconico; il viso affiora dall'alone bianco del colletto sul nero fondo dell'abito. Una mano pende languidamente, coperta dal guanto, e regge l'altro guanto sfilato; la mano scoperta porta sull'indice un anello prezioso. Al collo, nell'apertura della veste scura, una collana lunga, d'oro ritorto, si adagia sulle piegoline della camicia. Il guanto, l'anello, la collana alludono a uno status sociale elevato. Ma il senso di sicurezza che emana da questi particolari si annebbia un poco nel volto giovane, appena segnato dalla peluria incipiente dei teneri baffi e negli occhi che guardano qualcosa ignoto allo spettatore. Nel 2001 il quadro fu prestato al Museo d'arte e di storia di Ginevra e per l'occasione fu eseguita un'analisi minuziosa di tutti i particolari tecnici e pittorici. Risultò che la T non solo è di colore diverso, ma è tracciata con una mistura differente da quella delle altre lettere del nome TICIANUS. Potrebbe essere stata apposta in tempi diversi, magari da una persona diversa. Anche la presenza di incenso nella resina che copre la pittura è singolare in un quadro del Cinquecento.
  4. .
    Okkervil-River-The-Silver-Gymnasium_1378112271
    Meriden, New Hampshire, 1986. Un angolo sperduto dell’America, in cui si aggira un ragazzino fragile e occhialuto dall’aria un po’ stramba. Nella Main Street del paese il suo cane può starsene comodamente sdraiato tutto il giorno a dormire in mezzo alla strada: di macchine non ne passano quasi mai, in quella cittadina sonnecchiante immersa nei boschi. Il suo nome è Will, e non se la cava granché bene né con gli sport, né con la caccia, né con le relazioni in genere. Il mondo, per lui, è un orizzonte carico di mistero: e, con il misto di curiosità e desiderio della banda di amici di “Stand By Me”, non attende altro che di andare a scoprirlo.
    I concept non sono certo una novità, per gli Okkervil River. Ma non era mai successo che avessero un’anima così personale e autobiografica come in “The Silver Gymnasium”: un viaggio al cuore degli anni Ottanta, in cui Will Sheff sale a bordo della sua DeLorean per ritrovare i luoghi e i volti della città dove è cresciuto. Fino a tornare a rispecchiarsi in quel ragazzino con gli occhiali spessi e lo sguardo proiettato lontano.

    Videocassette, Atari, walkman… I reperti di modernariato che affiorano tra i versi di “The Silver Gymnasium” evocano in un istante i ricordi di una generazione. Ad accompagnare il disco c’è persino un videogioco a 8-bit in cui si può impersonare Will Sheff per avventurarsi tra i segreti del cimitero di Meriden, ritrovandosi magicamente catapultati nell’universo di una vecchia sala giochi.
    Ma, prima ancora dello scenario, è la musica a fare da guida nella ricerca del tempo perduto: conferendo ai brani di “The Silver Gymnasium” una luccicante patina Eighties, senza per questo snaturare la personalità della musica degli Okkervil River. Dietro al mixer, non a caso, c’è per la prima volta il produttore John Agnello, artefice tra l’altro del successo di “Your Love” degli Outfield, che proprio nel 1986 entrava nelle top ten americane. Ed è un po’ come se Sheff ci portasse a bordo della vecchia station wagon di famiglia, quando la domenica mattina, lungo la strada per andare in chiesa, il padre si sintonizzava sulle hit di una delle pochissime stazioni radio capaci di arrivare fino a Meriden.

    Le tastiere di “Down Down The Deep River” chiamano subito in causa lo Springsteen era “Born In The U.S.A.”, in una trionfale giostra di slanci lirici e ammiccamenti corali. È l’inizio di un caleidoscopio di Polaroid recuperate dalla scatola della memoria, in cui Sheff riporta orgogliosamente in vita i sogni dorati dei Simple Minds con l’enfasi contagiosa di “Stay Young”, per poi indossare con disinvoltura i panni del crooner pop, rendendo omaggio al Jim Reid di “Darklands” sul passo marziale di “White”.
    A parte qualche sfoggio di melodia sin troppo facile (da “Pink-Slips” a “Where The Spirit Left Us”), i toni sovraccarichi di “I Am Very Far” lasciano così il posto a una rinnovata leggerezza, che sembra volersi riallacciare alle atmosfere della coppia “The Stage Names” / “The Stand Ins”: lo testimoniano il pulsare irrequieto di “Walking Without Frankie” e ancor di più le chitarre scattanti di “On A Balcony”, su cui i fiati vanno a imprimere una calda impronta soul. Sono però le tastiere, stavolta, le vere protagoniste dell’album: ora con la solennità dell’inno, ora con un insinuarsi impalpabile, come nei tremolii di synth che introducono “Lido Pier Suicide Car”. Per ritrovare l’eco dei vecchi Okkervil River, occorre rivolgersi all’andamento familiare di “All The Time Every Day”: ma la sensazione è che i tempi siano definitivamente cambiati per Sheff e soci, e sarebbe illusorio non prenderne atto.

    Un fraseggio lieve di piano introduce la nostalgia di “It Was My Season”, raccontando la confusa altalena di emozioni del crinale tra un’amicizia e qualcos’altro. “The Silver Gymnasium” è una collezione di storie raccontate attraverso gli occhi di un ragazzino ancora sospeso nel limbo tra infanzia e adolescenza – “a little boy in a serious danger of getting old”, per usare le parole di Sheff in “Walking Without Frankie”. Senza idealizzare il passato, ma andando a cogliere anche tutto il suo bagaglio di rabbia e incertezze (“Show me my best memory, it’s probably super crappy”, confessa Sheff in “Pink-Slips”).
    Come nell’affresco dei territori di una saga fantasy, il talento visionario di William Schaff (anche stavolta responsabile dell’artwork) rivisita Meriden in una mappa interattiva dove un videonoleggio può assumere i tratti della terra promessa e la cima di un albero può diventare la via di fuga per raggiungere Michael Jackson. Facendo di una cittadina di poche centinaia di abitanti l’universo incantato in cui si nasconde la chiave per andare alla scoperta della realtà.

    “We can never go back, we can only remember”, proclama “Down Down The Deep River”. Eppure, lo struggimento di “It Was My Season” non è fatto di rimpianto: per dire tua una stagione, per dire che un momento ti appartiene davvero, occorre la semplicità di riconoscere quella corrispondenza che fa vibrare il cuore nel punto più acuto, il punto della mancanza. “Open up your heart, show me the place where love is missing”: è tutto qui, probabilmente, il segreto per restare sempre giovani. “Stay young, stay srong”. Domani può essere ancora la nostra stagione.

    Tracklist

    It Was My Season
    On A Balcony
    Down Down The Deep River
    Pink-Slips
    Lido Pier Suicide Car
    Where The Spirit Left Us
    White
    Stay Young
    Walking Without Frankie
    All The Time Every Day
    Black Nemo

    ondarock

  5. .

    Pieter Brueghel il Vecchio (Pieter Bruegel the Elder) - Cacciatori nella neve

    1565 - olio su tavola - 117x162 cm - Vienna, Kunsthistorisches Museum


    800px-Pieter_Bruegel_the_Elder_-_The_Hunters_in_the_Snow_%28January%29_-_WGA3434



    Si tratta di una scena invernale, simbolo forse di dicembre/gennaio. In una pungente giornata in cui la neve ha coperto tutto il paesaggio, un gruppo di cacciatori in primo piano a sinistra si appresta a rientrare al villaggio coi cani al seguito e con qualche uccello come preda. Il loro passo è pesante e silenzioso.
    Attenta è l'analisi delle attività umane in questo periodo dell'anno: a sinistra alcuni contadini, davanti alla locanda "Al cervo" (come recita l'insegna), stanno strinando il maiale appena ucciso; anche se l'animale non si vede, la circostanza è chiarita dalla presenza del mastello di legno usato durante la macellazione.
    La discesa conduce lo sguardo in lontananza, verso la spianata ghiacciata dove piccole figure di adulti e bambini sono alle prese con giochi e corse su pattini e slittini. Lo sfondo è occupato da una distesa di campi resi candidi dalla neve, punteggiati da casolari e chiesette, che arrivano fino ai piedi delle montagne innevate, un elemento estraneo al paesaggio fiammingo, ma che Bruegel aveva visto anni prima in un viaggio in Italia, attraversando le Alpi. Al centro la pianura si estende a perdita d'occhio, fino alla riva marina, velata dai rami degli alberi in primo piano, spogli e carichi di neve, che sottolineano lo scorrere in profondità dello spazio e creano suggestivi effetti di contrasto.
    I colori dominanti sono freddi (bianco, grigio-verde, nerastro), perfetti per rendere il gelo dell'atmosfera invernale, e su di essi risaltano i dettagli di colore bruno, come i cacciatori e la muta dei cani, il cotto delle abitazioni, il fuoco a sinistra.

    Una fioritura, quella dei dipinti dedicati a scene paesaggistiche invernali sommerse dal manto di neve, che trova nel capolavoro assoluto di Bruegel, Cacciatori nella neve, un precedente ineludibile anche per la produzione artistica dei secoli successivi. Nella pittura olandese seicentesca, il nome più noto è quello di Hendrick Avercamp (1585-1634), che si specializzò in maniera pressoché esclusiva in questo genere, immortalando i passatempi degli abitanti di quelle zone: quando, nelle lunghe giornate invernali, tutta la popolazione si dà al pattinaggio sul ghiaccio in un panorama avvolto da una spessa coltre di neve che lo rende quasi irreale.

    AvercampWinterScenewithSkatersNearCastleCa1618LondonNG
    Hendrick Avercamp, Scena invernale con pattinatori presso un castello, 1608-1609 ca., Londra, National Gallery

  6. .
    Franz-Ferdinand-Right-Thoughts-Right-Words-Right-Action_1378032166
    Uno squillo telefonico che rompe il tedio delle prime giornate post vacanza ancora non oberate dalla produttività industriale: “Sai che l’amico Franz Ferdinand organizza un party, uno dei suoi, per festeggiare la fine della stagione calda, per accogliere l’equinozio autunnale e renderlo più accettabile?”. La tentazione della scusa buona per tutte le situazioni si fa largo, mentre ti ritrovi stravaccato sul divano, con il telecomando in mano in attesa di qualche highlight pallonaro, con un occhio allo smartphone e alle sue imperdibili novità provenienti da Facebook. Ancora tu? Ma non dovevamo vederci più?! Dio, sarà la solita solfa, stessi tramezzini, bibite intercambiabili, quel tipo di divertimento che una volta terminato ti fa sentire più vecchio di qualche mese, che senso ha?!

    Oh, l’ultima volta, in notturna con tanto di luna piena, non era neanche andata male: qualche invitato mai visto, un’aria più sofisticata, fresca, anche inaspettata. E allora via! Un balzo simil felino verso l’armadio a scovare l’abbigliamento adatto: camicia stretch, cravattino, pantaloni con le pinces, che son pure tornati di moda, due smorfie di verifica allo specchio ed… è sempre la stessa storia!? Un panorama di pose, sorrisi finto ironici, mani in tasca (una, l’altra regge il cocktail), tutti impegnati a raccontarsi gli ultimi giri del mondo, avventurosi a tal punto da essere degni dei migliori Ulysses. Routine da farti cadere le braccia, con il rischio di dover abbandonare l’aria misteriosa e maliziosa. Uno sguardo al biglietto di accompagnamento, non si sa mai, potremmo aver clamorosamente sbagliato indirizzo: pensieri, parole e opere esatte, precise, non una virgola di più, rispettando se possibile gli accapo, sembra un mantra. Basta un attimo, magari anche qualcosina in più, per capire che non si tratta di un semplice scioglilingua, ma di una missione, quella di mettere sottosopra la casa, di costruire l’ennesima festa perfetta, futile, sciocca ma, diamine, divertente. Un’infilata di luoghi comuni che non si curano di probabili smorfie di disgusto e procedono diritti allo scopo, sinuosi, eleganti, accessibili, privi di impennate intellettuali, perché tempo per pensare e ripensare ne sprechiamo anche troppo.

    Kapranos e soci ristampano per l’ennesima volta il dizionario dei sinonimi e dei contrari del pop ballabile, riposizionando le chitarre in prima fila, dando una lustrata ai classici coretti irresistibili, rimettendo in moto la macchina della citazione, escamotage che in mano a quelli bravi si tramuta nell’esatto contrario della scopiazzatura. Può bastare una mezzoretta abbondante di ammiccamenti, ritornelli, dududu e dadada (e tutti a spernacchiare quell’antipatico di Sting, 33 anni orsono), danze rese in maniera efficace e spartana dall’egregio tempismo di Paul Thomson che, dietro le pelli, riporta definitivamente alla luce il batterista funky dance sintetico, cancellando le malefatte disordinate dei britpoppari. E allora ecco che, come un rullo infinito, si susseguono i saltelli di “Right Action”, la rivisitazione arguta degli Specials di “Evil Eye”, i ritmi robotici di “Love Illumination” con gustoso contorno di synth, i riffetti compulsivi di “Stand On The Horizon”, lo scatenamento progressivo e poi via via sempre più febbrile di “Bullet” e “Treasons! Animal”, il romanticismo malinconico e ingenuamente anni 60 di “Fresh Strawberries” e “Brief Encounters”.

    Sarà pure la replica della solita vicenda, ma i Ferdinand sono i nuovi principi del remake-remodel, e fanno addirittura credere che i rifacimenti possano essere migliori dell’originale. Una ritmica essenziale, plastica e oliata, le chitarre scatenate e perfettamente domate, i cori armonizzati a dovere; su tutto si staglia la regia del finto dandy Alex K., vocalist e compositore di rara precisione ed efficacia. Il Kapranos mascherato da compagnone di sbronze che alla fine saluta gli invitati, amanti e amici; e l’arrivederci spetta a un giochino che poggia su una doppia base, chitarre alla “The Passenger” e rumori hip-hop, con drone in sottofondo, mentre il titolare afferma sogghignante "Don’t play pop music, You know, I hate pop music", e tutto intorno, si passa con puntuale sarcasmo, dalla ballata al coro da stadio, tra accelerazioni e momenti di quiete; un vero e proprio sunto della festa che qualcuno giura possa durare un po’ più del previsto, in barba ai soliti vicini noiosi.
    Poi esci alle prime luci dell’alba e corri verso l’agognato caffè: un Franz Ferdinand senza zucchero, tanto non serve, più ne butti giù e più ti tira su. E il giro ricomincia.

    Tracklist

    Right Action

    Evil Eye

    Love Illumination

    Stand On the Horizon

    Fresh Strawberries

    Bullet

    Treason! Animals

    The Universe Expanded

    Brief Encounters

    Goodbye Lovers and Friends

    ondarock

  7. .

    Pieter Brueghel il Vecchio (Pieter Bruegel the Elder) - Ritorno della mandria

    1565 - olio su tavola - 117x159 cm - Vienna, Kunsthistorisches Museum


    Pieter_Bruegel_d._%C3%84._103d



    La scena rappresenta probabilmente i mesi di ottobre e novembre, col faticoso cammino degli uomini e degli animali, di ritorno dal pascolo, verso la stalla in secondo piano. Come in altre opere dell'artista, gran parte della tavola ospita un vasto paesaggio, in questo caso autunnale, dominato dal contrasto tra i colori caldi della vegetazione e quelli cupi e freddi del cielo che volge all'oscurità. Attentamente descritta è la natura e i mutamenti che essa subisce sia per il variare delle stagioni che per l'attività dell'uomo. In secondo piano si vede ad esempio un vigneto vendemmiato e una rete per l'uccellagione, segni della presenza umana.
    Per rendere gli effetti più fini, come la secchezza degli alberi e il fogliame a terra, Bruegel punteggiò il colore di base col pennello quasi asciutto, in modo da lasciare visibili i singoli segni e il fondo opportunamente preparato, in terra di Siena.
  8. .

    Tiziano Vecellio - Ritratto di Vincenzo Mosti

    1520 ca. - olio su tavola - 85x67 cm - Firenze, Galleria Palatina


    466px-Tizian_071



    Da uno sfondo scuro emerge un personaggio maschile a mezza figura, girato di tre quarti verso destra, con lo sguardo rivolto allo spettatore. Indossa un'ampia casacca bordata di pelliccia, una berretta scura e una camicia bianca increspata al collo. La vaporosa manica è posta in primo piano tramite il gesto di appoggiare il gomito su un parapetto immaginario che coincide col bordo inferiore del dipinto, su cui l'uomo tiene appoggiato anche un libro, simbolo della sua cultura.
    Particolarmente efficace è la resa estetica del soggetto e le componenti psicologiche che trasmette: dignità, nobiltà d'animo, risolutezza, intelligenza. Nel rendere i diversi dettagli l'artista usa diversi tipi di pennellata: sfumata e delicata sul volto, marezzata di luce nel colletto della camicia, pastosa e visibile per la pelliccia.
  9. .
    eerieOR_1377700441
    Mount Eerie è un'anima in pena, uno spirito bambino che scruta il mondo con occhi spaventati e sbalorditi. Una reincarnazione che dovette necessariamente cambiare nome in seguito all'album eponimo dei Microphones, fondamento di un percorso tutto nuovo nella ricerca musicale e poetica di Phil Elvrum – senza dubbio uno dei più singolari songwriter dell'ultimo decennio.
    Questo intimo concerto del 2011 anticipa alcuni brani dell'imminente dittico composto da “Clear Moon” e “Ocean Roar”, e assieme rende conto degli ultimi anni di questo progetto, riproponendo diversi brani dal precedente full-length “Wind's Poem”. Dalla imponente rock-band ricca di suoni stratificati a un set di soli tre elementi: due tastiere e una chitarra ci guidano in questo breve viaggio dove i brani sono come scarnificati, ridotti all'essenza più pura del loro messaggio ancestrale; così come Elvrum non può fare a meno di nominare il cielo o gli astri nei suoi testi, ma senza mai farli sembrare banali, come se ogni volta si rinnovasse in lui la profonda meraviglia nel contemplarli.

    If I look
    or if I don't look
    clouds are always passing over
    the place I live.

    Le dense parole sovrastano la strumentazione con assoluta limpidezza (la registrazione è frugale ma accorta nel bilanciamento delle parti), uniti alle minime progressioni di accordi delle tastiere che disegnano vaste distese ambientali, come paesaggi stilizzati di un adulto un po' naif. La chitarra leggermente effettata di Phil frammenta lo spazio sonoro o gli fa da collante in modo disinvolto, come nelle pennate pungenti e ostinate di “Between Two Mysteries” o negli arpeggi trasognati di “Ancient Questions”.
    Oltre alla formazione insolita, ciò che rende imperdibile questo live è l'accurata selezione dei brani, davvero rappresentativa del discorso che Elvrum sta portando avanti con i suoi sodali. Ed è raro, specie in piena era digitale, trovare una registrazione live che non sia banalmente interlocutoria, atta a intrattenere gli aficionados di lunga data. Nel suo piccolo, questo è uno dei momenti più evocativi che potrete riservarvi quest'anno.

    But nothing means nothing
    and everything's fleeting
    so don't get used to it
    I say, look upon the ruins

    Tracklist

    Introduction
    House Shape
    Between Two Mysteries
    Ancient Questions
    Karl Blau
    No Inside, No Out
    The Place I Live
    Lone Bell
    See Me
    Stone’s Ode
    The Place Lives

    ondarock

    http://xrarecords.bandcamp.com/album/live-...ember-30th-2011
  10. .
    another_self_portrait_1377354746
    Il 27 aprile del 1968, sul ring di Oakland, California, è in palio il titolo mondiale dei pesi massimi. Jimmy Ellis contro Jerry Quarry: un incontro destinato a entrare negli annali della boxe. Tra gli spettatori ce n’è uno molto particolare: Bob Dylan. “L’intera faccenda si era fatta rovente”, ricorda nella sua autobiografia. Quarry veniva presentato come “la nuova grande speranza bianca”, ma non voleva saperne dell’enfasi razziale costruita intorno al suo nome. Ellis considerava il pugilato come un lavoro qualsiasi, qualcosa per mantenere la famiglia più che una via per entrare nella leggenda. “Io mi sentivo un po’ Ellis e un po’ Quarry”, prosegue Dylan. “Come Quarry, non volevo ammettere di essere un emblema, un simbolo o tantomeno un portavoce, e come Ellis anch’io avevo una famiglia da mantenere”.

    Tra i guantoni di quella sfida, c’è in pratica tutto il dilemma in cui Dylan si dibatte all’affacciarsi degli anni Settanta. Il desiderio di scrollarsi di dosso le etichette, il bisogno di recuperare la concretezza della vita quotidiana. “Io ero un cowboy, non un pifferaio magico”, per usare le sue stesse parole. E non un cowboy per modo di dire, visto che il Dylan che riemerge dall’esilio bucolico di Woodstock indossa i panni del placido interprete country. Persino la voce, il suo marchio più inconfondibile, si trasforma in una carezza morbida e avvolgente: “Dovevo far uscire segnali devianti, mettere i freni al treno impazzito, creare un’impressione differente”.
    Il decimo volume delle “Bootleg Series” si situa proprio al cuore di questo controverso punto di svolta. Con il coraggio di ricollegarsi direttamente a uno dei punti più bassi della produzione dylaniana, quel famigerato “Self Portrait” che fece esclamare a Greil Marcus in una celebre recensione sulle pagine di “Rolling Stone”: “What it this shit?”. Allora, l’intento di Dylan era volutamente iconoclasta: “Non feci altro che tirare contro un muro tutto quello che avevo sottomano. Quello che ci restava attaccato lo pubblicai, poi andai a raccogliere anche il resto che non ci era rimasto attaccato e pubblicai anche quello”. Oggi, l’immersione negli archivi consente di andare a riscoprire la sostanza nascosta dietro quel gesto autodistruttivo. Consentendo a Dylan di ritoccare il proprio autoritratto, come nel nuovo dipinto utilizzato per la copertina.

    Quella di “Another Self Portrait” è una riscrittura che procede anzitutto per sottrazione: eliminando dalle registrazioni originali gli interventi più invasivi aggiunti in sede di produzione, responsabili in larga misura del suono edulcorato e stucchevole dell’album. Così, ecco “Little Sadie” ritrovare la tensione asciutta della murder ballad, mentre “Copper Kettle” e “Days Of ‘49” si liberano delle ridondanti sovraincisioni di archi e percussioni.
    L’opera di rivisitazione prosegue poi recuperando dal fondo dei cassetti una manciata di brani scartati dalle session di “Self Portrait”. Brani di tutt’altro spessore rispetto a buona parte di quelli effettivamente inclusi nell’album, a conferma di quanto all’epoca le scelte di Dylan fossero lucidamente indirizzate al peggio. Nel repertorio di cover inanellato per sopperire alla mancanza di nuovi brani autografi, l’armonica svelta di “Railroad Bill” e la declamazione fatalista di “House Carpenter” portano l’eco del Dylan dei primi giorni, mentre l’antica ballata inglese “Pretty Saro” assume l’aspetto di una sorta di Devendra Banhart ante litteram. Anche gli omaggi a canzoni contemporanee, da “Annie's Going To Sing Her Song” di Tom Paxton a “Thirsty Boots” di Eric Andersen, hanno fortunatamente ben poco a che vedere con le agghiaccianti riletture di classici come “The Boxer” e “Blue Moon” inserite in “Self Portrait”.

    Il tono scarno e diretto delle esecuzioni, accompagnate quasi esclusivamente da David Bromberg e Al Kooper, coniuga le atmosfere spoglie di “John Wesley Harding” con la rilassatezza di “Nashville Skyline”. Ma “Another Self Portrait” si spinge ad allargare il quadro anche oltre i confini dell’album originale, tratteggiando un affresco a tutto tondo del Dylan di inizio anni Settanta.
    Al di là di una fugace incursione nello scrigno dei “Basement Tapes” (“Minstrel Boy”, che in “Self Portrait” era stata inclusa in versione live), il viaggio a ritroso prende le mosse da “Nashville Skyline” (con un paio di versioni alternative tutto sommato prescindibili), per arrivare a soffermarsi su “New Morning”, l’album chiamato a riscattare le sorti dylaniane a pochi mesi di distanza dall’uscita di “Self Portrait”.
    In questo caso, il materiale inedito rivela tutta l’incertezza di Dylan circa la direzione da prendere nel nuovo disco: una sezione di fiati prova a imprimere il marchio Stax sulla title track, orchestrazioni di archi avvolgono di enfasi “Sign On The Window”, un controcanto di violino si insinua in “If Not For You”. Ma, ancora una volta, sono gli arrangiamenti più disadorni a risaltare, dai ricami acustici con cui “Went To See The Gypsy” racconta l’incontro con Re Elvis sino ad una “If Dogs Run Free” ben lontana dalle divagazioni jazz della versione pubblicata su “New Morning”.

    Certo, il materiale raccolto in “Another Self Portrait” è pur sempre l’istantanea di un Dylan in piena crisi di ispirazione, che spesso non va oltre la semplice improvvisazione: come riconosce lui stesso a proposito di “New Morning”, “forse tra quei solchi c’erano belle canzoni e forse non ce n’erano, chi lo sa, in ogni caso non erano di quelle che ti fanno rimbombare un tremendo suono in testa. Quelle le conoscevo, e sapevo bene che nessuna delle nuove apparteneva a quella categoria”. Le outtake del disco offerte in questa occasione, da “Bring Me A Little Water” a “Tattle O’Day”, non fanno che confermare la sensazione di anonimato, così come il boogie giocoso di “Working On A Guru”, registrato al fianco del vecchio amico George Harrison. Non è certo casuale, allora, la collocazione in chiusura di un demo di "When I Paint My Masterpiece", riflessione allo specchio di un artista in cerca della propria musa: "Someday, everything is gonna be smooth like a rhapsody/ When I paint my masterpiece".
    La deluxe edition del disco aggiunge al set (oltre alla versione rimasterizzata del “Self Portrait” originario) uno straordinario documento storico: la registrazione integrale del concerto di Dylan al fianco della Band al festival dell’Isola di Wight del 1969, che la Columbia aveva vagheggiato all’epoca di pubblicare come album live. Un’esibizione anche in questo caso controversa, un ritorno alle scene a tratti traballante (“Like A Rolling Stone” su tutte), ma che in episodi come la contagiosa resa corale di “I'll Be Your Baby Tonight” riesce a mostrare le scintille del miglior Dylan del periodo.

    Il significato di questo nuovo itinerario nel catalogo dylaniano è allora da ricercare soprattutto nella possibilità di una sorprendente riscoperta. Come aveva intuito subito Greil Marcus, “Self Portrait” non è altro che “un concept album raccolto dal pavimento della sala montaggio. È stato costruito con grande maestria, ma come occultamento, non come rivelazione”. Ecco, proprio la rivelazione è – all’opposto – la cifra di “Another Self Portrait”. L’occasione di ridipingere i tratti del volto di Dylan. E, alla maniera di Jay Gatsby, di riscrivere il passato.

    Tracklist

    Disc one

    1. Went To See The Gypsy (Demo)
    2. Little Sadie (Without overdubs)
    3. Pretty Saro
    4. Alberta #3 (Alternate version)
    5. Spanish Is The Loving Tongue
    6. Annie's Going To Sing Her Song
    7. Time Passes Slowly #1 (Alternate version)
    8. Only A Hobo
    9. Minstrel Boy
    10. I Threw It All Away (Alternate version)
    11. Railroad Bill
    12. Thirsty Boots
    13. This Evening So Soon
    14. These Hands
    15. In Search Of Little Sadie (Without overdubs)
    16. House Carpenter
    17. All The Tired Horses (Without overdubs)

    Disc two

    1. If Not For You (Alternate version)
    2. Wallflower (Alternate version)
    3. Wigwam (Without overdubs)
    4. Days Of '49 (Without overdubs)
    5. Working On A Guru
    6. Country Pie (Alternate version)
    7. I'll Be Your Baby Tonight (live with The Band)
    8. Highway 61 Revisited (live with The Band)
    9. Copper Kettle (Without overdubs)
    10. Bring Me A Little Water
    11. Sign On The Window (With orchestral overdubs)
    12. Tattle O'Day
    13. If Dogs Run Free (Alternate version)
    14. New Morning (With horn section overdubs)
    15. Went To See The Gypsy (Alternate version)
    16. Belle Isle (Without overdubs)
    17. Time Passes Slowly #2 (Alternate version)
    18. When I Paint My Masterpiece (Demo)

    Bonus disc (Deluxe edition)
    Bob Dylan & The Band At Isle Of Wight – August 31st, 1969

    1. She Belongs To Me
    2. I Threw It All Away
    3. Maggie's Farm
    4. Wild Mountain Thyme
    5. It Ain't Me, Babe
    6. To Ramona / Mr. Tambourine Man
    7. I Dreamed I Saw St. Augustine
    8. Lay Lady Lay
    9. Highway 61 Revisited
    10. One Too Many Mornings
    11. I Pity The Poor Immigrant
    12. Like A Rolling Stone
    13. I'll Be Your Baby Tonight
    14. Quinn the Eskimo (The Mighty Quinn)
    15. Minstrel Boy
    16. Rainy Day Women #12 & 35

    ondarock

  11. .
    White_Lies_Big_TV_cover_1377248932
    La scena alternativa britannica dell'ultimo decennio può essere divisa in due momenti ben distinti. Prima l'ondata post-Strokes, durata più o meno dal 2003 al 2007, a suon di chitarre scheletriche e produzioni dal suono asciutto: Franz Ferdinand, Bloc Party, Razorlight e via dicendo. Poi quella epica entrata in vigore intorno al 2008-2009, con suoni espansi, utilizzo massiccio dell'eco, impeto romantico e canto a polmoni spiegati. (Qualcuno farà notare che in mezzo, proprio durante il passaggio di testimone, è rintracciabile anche la parentesi nu rave: per quanto brillante fu però troppo breve e circostanziata per poter ambire a una reale rilevanza storica).

    I White Lies rappresentano probabilmente la band che ha segnato il momento di svolta più di qualunque altra, sin da quando apparvero sulla copertina del New Musical Express nel febbraio del 2009, a capo di un presunto movimento neogotico composto da loro, S.C.U.M, Ulterior e Horrors (fatto che in vero ho già raccontato in una qualche recensione: abbiate pazienza, ormai sono come quelle cariatidi che ripetono sempre la stessa storia dei bei tempi andati).

    Quel quadretto si è poi risolto con lo scioglimento degli S.C.U.M dopo un solo bellissimo album, con gli Ulterior incapaci di raggiungere un pubblico di qualsivoglia rilievo nonostante un debutto altrettanto valido, e con i soli Horrors capaci di imporsi con pieno merito fra i santoni del panorama indie britannico. I White Lies? Vanno avanti con la loro fetta di pubblico che via via si restringe ma ancora gli consente di centrare la top-5 nella prima settimana di uscita. La critica li demolisce con costanza, ma per fortuna sembrano fregarsene senza troppi piagnistei, rimanendo fedeli alla propria linea.

    Quel movimento ipotizzato dal celebre giornale non era in realtà una resurrezione gotica, ma un cambio generale di mood, da parte di giovincelli stufi di chitarre secche e riffeggianti (che pure regalarono tanta bella musica, ma che dopo un lustro avevano provocato indigestione). Da lì il suono delle produzioni si è gonfiato a dismisura. Molte delle band britanniche dal 2008-2009 in poi sembra che abbiano registrato le proprie canzoni in cima al K2, per non parlare dell'aspetto vocale: messo al bando l'approccio un po' caciarone e isterico della precedente scuola.

    Si può insomma odiare i White Lies quanto si vuole, ma la realtà è che si tratta di una band centrale per il rock britannico degli ultimi anni. E per la gioia di chi li ha da sempre difesi, questo terzo lavoro in studio li vede in ottima forma. Certo non è un album che possa cambiare la vita (quel potere lo lasciamo al debutto capolavoro), ma contiene comunque qualche pezzo pronto a diventare un classico dei loro. Cosa volere di più?

    "There Goes Our Love Again" è un k.o. immediato, serratissima dalla prima battuta, con batteria maestosa, bassone e velo di tastiere corali. Harry McVeigh inizia a cantare esattamente al terzo secondo, senza neanche dare il tempo di incassare l'attacco strumentale mozzafiato. Quello che si nota maggiormente è l'atmosfera ariosa: rimane la potenza di "To Lose My Life", così come ne rimane il marchio strumentale, ma la sua atmosfera tragica è evaporata. Questo è un perfetto singolo estivo, e in tutta onestà, chi se lo sarebbbe aspettato da questi tre musoni?

    "Mother Tongue" è un altro gancio: senza perdere tempo dispiega il suo ritmo imponente e al secondo 33 è già arrivata al ritornello, apoteosi di chitarrone e vociona. La loro è davvero big music, in ogni senso del termine (quindi anche nel senso Waterboys, Echo and the Bunnymen e Big Country).

    In generale i brani più veloci e immediati sfoggiano tutti questa sensazione di libertà, corsa in spazi aperti e montagne immacolate ("Be Your Man" ne è un altro esempio lampante); chi scrive li preferisce ai lenti, che peccano di qualche eccesso zuccherino, pur rivelando comunque il talento del trio (si pensi alla power ballad con pompa orchestrale "First Time Caller"). Meritevole di medaglietta anche "Tricky To Love", midtempo tutto grandeur e malinconia, le cui stratificazioni tastieristiche spiegano meglio di ogni parola quanto sia curata la produzione di Ed Buller, maestro sottovalutato come pochi, che quest'anno abbiamo già visto attivo con i ritrovati Suede.

    Tracklist

    Big TV
    There Goes Our Love Again
    Space i
    First Time Caller
    Mother Tongue
    Getting Even
    Change
    Be Your Man
    Space ii
    Tricky To Love
    Heaven Wait
    Goldmine

    storiadellamusica.it

  12. .
    I dipinti erano spariti dal museo di Rotterdam ad ottobre. Avevano un valore che oscillava tra i 50 e i 100 milioni di euro

    Un terribile presentimento diventato realtà: i sette dipinti rubati nell’ottobre del 2012 dal museo Kunsthal di Rotterdam sono stati distrutti dal fuoco. La madre di uno dei presunti sospettati, per sbarazzarsi della refurtiva, li avrebbe bruciati nel forno.

    BRACCATI - I presunti ladri sono stati arrestati all'inizio di quest'anno. Tuttavia, i quadri rubati lo scorso ottobre dalla Kunsthalle di Rotterdam, nei Paesi Bassi, non sono mai stati ritrovati. Gli inquirenti della Romania hanno confermato ora che le opere di Lucian Freud, Paul Gauguin, Henri Matisse, Meijer de Haan, Claude Monet e Pablo Picasso sono state distrutte. Braccati dalla polizia i ladri, a quanto pare, erano stati presi dal panico anche perché si erano resi conto che non sarebbero stati in grado di vendere delle tele, il cui valore oscillava tra i 50 e i 100 milioni di euro. Di lí avrebbero perciò preso la drastica decisione.

    L’AMMISSIONE - Martedì scorso è stata infine Olga Dogaru, la madre di uno dei primi sospettati, Radu Dogaru, a rivelare in un’intervista alla tv romena di aver messo quei capolavori nel forno dopo aver scoperto che il figlio era finito in manette. Gli investigatori hanno successivamente analizzato la cenere e trovato resti di vernice, di tela e chiodi, riferisce la BBC. L'inizio del processo è fissato per il 13 agosto prossimo. Sul banco degli imputati: due ladri sospetti e quattro presunti complici, tra cui la madre di uno dei ladri. Quattro degli imputati sono in custodia cautelare, mentre uno è riuscito a far perdere le sue tracce.

    LE OPERE - Era da una decina di anni che non veniva realizzato un furto simile di opere d’arte: le sette tele erano state portate via in tutta tranquillità durante la notte. Facevano parte della collezione privata della Triton Foundation, 150 tele concesse per la mostra «Avanguardie» nel ventesimo anniversario del museo. I sette gioielli inestimabili, andati distrutti per sempre, sono: «Testa di Arlecchino» di Pablo Picasso del 1971; «La lettrice in bianco e giallo» di Henri Matisse del 1919; «Waterloo Bridge» e «Charing Cross bridge» di Claude Monet, entrambi del 1901; «Donna davanti una finestra aperta» di Paul Gauguin del 1888; «Autoritratto» di Van Meyer de Haan e «Donna con gli occhi chiusi» del 2002 di Lucien Freud.

    Autoritratto_di_Van_Meyer_de_Haan_AP_941-705_resize
    «Autoritratto» di Van Meyer de Haan

    Claude_Monet-_Charing_Cross_Bridge,_London_(Ap)_941-705_resize
    «Charing Cross Bridge» di Claude Monet

    Claude_Monet-_Waterloo_Bridge,_London_(Ap)_941-705_resize
    «Waterloo Bridge» di Claude Monet

    Donna_con_gli_occhi_chiusi_2002_di_Lucien_Freud_(AP)_941-705_resize
    «Donna con gli occhi chiusi» di Lucian Freud

    Donna_davanti_una_finestra_aperta_di_Paul_Gauguin_(AP)_941-705_resize
    «Donna davanti una finestra aperta» di Paul Gauguin

    La_lettrice_in_bianco_e_giallo_di_Henri_Matisse_1919_(AP)_941-705_resize
    «La lettrice in bianco e giallo» di Henri Matisse

    Testa_di_Arlecchino_di_Pablo_Picasso_(AP)_941-705_resize
    «Testa di Arlecchino» di Pablo Picasso



    corriere.it
  13. .

    4bce2dba43d628a3456f36f336c2aa28858b73ed



    Inaugurazione: venerdì 12 luglio 2013 ore 20.00

    I depositi sono il cuore del museo: non si vedono, ma sono indispensabili alla sua vita. Il percorso espositivo rappresenta solo la punta dell'iceberg del patrimonio custodito nella sua collezione, la parte più visibile, ma altre storie e altri percorsi possono emergere proprio dai depositi: volto in ombra, e certo non meno interessante del museo, un indispensabile serbatoio che custodisce le opere escluse, spesso principalmente per motivi di spazio

    Realizzata dal Comune di Palermo in collaborazione con Civita Sicilia, la mostra Il Museo tra storia e costume - a cura di Antonella Purpura e di Fernando Mazzocca, allestita presso la Galleria d’Arte Moderna di Palermo dal 13 luglio al 22 settembre 2013 - racconta alcune di queste possibili storie, attraverso un cospicuo numero di opere provenienti dai depositi della Galleria d'Arte Moderna normalmente non visibili al pubblico.

    Saranno esposte in mostra opere che mostrano quanto ampio fosse l'orizzonte collezionistico locale: per la maggior parte opere di area siciliana, dal neoclassicismo alla straordinaria stagione del liberty fino alla metà del '900, con alcune inaspettate e inattese sorprese “forestiere”, da un sontuoso rappresentante dell'arte d'accademia torinese- Giacinto Grosso- fino al frizzante pittore di genere veneto, ricercato in Europa e in America- Giacomo Favretto.

    La mostra, attraverso sette sezioni tematiche, ripercorre la storia dell'arte dell'Ottocento e del Novecento in Sicilia e in Italia.

    L’esposizione sarà visitabile tutti i giorni dal martedì alla domenica dalle 9.30 alle 18.30 (ingresso consentito fino alle 17.30) con il lo stesso biglietto d’ingresso del museo.

    Informazioni Evento:

    Data Inizio:13 luglio 2013
    Data Fine: 22 settembre 2013
    Luogo: Palermo, Galleria d’Arte Moderna di Palermo
    E-mail:

    Dove:

    Galleria d’Arte Moderna di Palermo
    Città: Palermo
    Provincia: PA
    Regione: Sicilia

    beniculturali
  14. .
    weightofyourlove_1372671394
    Quarto album in studio e terza versione di sé da proporre al pubblico per la band di Birmingham, che sembra, oggi più che mai, decisa a espandere le sue folle acclamanti ben oltre i porti sicuri del Regno Unito. Dopo i primi due dischi in cui l’assalto chitarristico e una certa inclinazione a imitare gli Interpol la facevano da padrona e il terzo, bello e coraggioso oltre ogni misura, che percorreva i sentieri di un synth-pop epico e ombroso senza però raccogliere i feedback attesi, Tom Smith e soci prendono armi e bagagli e si trasferiscono – non solo idealmente – negli Stati Uniti. Nashville, per la precisione, alla corte di Jacquire King, già con Tom Waits, ma responsabile soprattutto dell’ascesa all’olimpo delle chart planetarie dei Kings Of Leon. Una virtù che, sin dagli esordi, non ha mai fatto difetto agli Editors, è una certa dimestichezza con un songwriting lineare e in grado di farsi ricordare, nonostante qualche rimando di troppo. Le canzoni, i nostri amici, le sanno scrivere e, per questo motivo, dovranno essersi infine posti la fatidica domanda: “Perché i Coldplay sì, e noi no?”.

    Non crediamo di essere andati lontano dalla realtà nel delineare la genesi di “The Weight Of Your Love”, se è vero che, per raggiungere l’anelato obiettivo, non hanno esitato ad allontanare lo storico ma troppo vincolante chitarrista Chris Urbanowicz in favore del più funzionale Justin Lockey, a cooptare il tastierista Elliott Williams, ma soprattutto a mettere al banco del mix Craig Silvey che, guarda caso, ricopriva lo stesso ruolo nell’incisione di uno dei rari number-one independent album a stelle e strisce: “The Suburbs”, dei canadesi Arcade Fire.
    Quello che ne esce è un lavoro che punta dritto alla rock arena, portandosi appresso tutta l’expertise delle band inglesi che, dagli anni 80 ai giorni nostri, sono riuscite a far breccia nei cuori del pubblico statunitense. Ci riusciranno? Di certo non dovrete credere alle interviste in cui Tom Smith sbandiera la fatidica registrazione in presa diretta, il “buona la prima” di cui sono farcite le rassegne stampa nel chiaro intento di entrare nelle grazie degli americani, storicamente abbacinati da linguaggi sonori più immediati. Balle, giacché questa quarta uscita è studiata sin nei minimi particolari, puntando tutte le sue fiche sull’estetica del live chic, col nemmeno troppo coperto scopo di far saltare il banco. Volendo abbozzare dei parallelismi, il disco che aiuta a mettere a fuoco questo progetto è “The Joshua Tree”, ossia quello con cui gli U2 si lasciano alle spalle, pur non rinnegandoli, gli umori della vecchia Europa, prima del salto definitivo di “Rattle And Hum”.

    Le strade degli Editors, insomma, un nome ce l’hanno eccome, ed è chiaro sin dalla declamatoria solennità di “The Weight”, con cui si apre la saga: battito di batteria, arpeggio di chitarra e afflati di Dave Gahan che fanno pendant con il probabile “put on your hands together” con cui Smith arringherà il suo pubblico dal palco. Non crediate però che si tratti di una mera infatuazione retrò, giacché in “Sugar” si mescolano con sapienza le scale arabe che furono degli Echo & The Bunnymen e certe teatralità proprie dei Muse, e però il pezzo gira e potrebbe dire la sua. Sempre a proposito di Bunnymen, è poi la volta del singolo “A Ton Of Love”, licenziato a maggio ma passato fino a questo momento piuttosto inosservato in madrepatria, che cita fra le righe “The Cutter” pur facendo tutte le sue cose perbenino: riffone appiccicoso in incipit, brigde – appunto - alla “spare us the cutter”, e ritornello esplosivo che rimanda ai Then Jerico, un’ambiziosa mainstream wave band inglese, che giunse fuori tempo massimo a piazzare un album nella top ten britannica nel 1989.

    In questa lodevole cavalcata verso i luminosi orizzonti della gloria, sarebbero mai potuti mancare i Coldplay? Certo che no, ed ecco allora “What Is This Thing Called Love” col suo balenare di un inusuale – per Smith – falsetto a condire una messe di archi che immaginiamo essere stati registrati al primissimo tentativo (come no), subito ribadita dalle seguente “Honesty”, in cui Billy Joel non c’entra se non nel titolo e nell’ambizione di diventare la ballad dell’estate 2013: ancora un falsetto come inciso, sospeso fra Brett Anderson e Chris Martin e, a seguire, il sornione “oh-oh-oh” che tanto piace sia al pubblico dei plurimilionari autori di “Mylo Xyloto”, che a quello un po’ più alternativo degli Arcade Fire. Il trittico per cuori teneri ma tormentati si chiude con “Nothing”, in cui i nostri, in barba al rischio di passare per dei gran ruffianoni, si cimentano in una spianata di archi che contrappunta, sola soletta, una voce che, in certi passaggi, sembra prelevata direttamente dall’ugola di Bruce Springsteen (!). Anche qui non può mancare l’oh-oh-oh d’ordinanza. In “Formaldehyde” e “Hyena” si imbracciano di nuovo le chitarre, con quest’ultima che sembra voler dare un contentino, sia pur in modo più edulcorato, ai fan della prima ora, mentre “Two Hearted Spider” torna ad abbracciare i primi amori, Joy Division e U2. La chiusura è riservata a una folk ballad sui generis, tanto piacevole quanto un po’ innaturale, in cui il vecchio Bruce fa di nuovo capolino, e a una pop song un po’ più tradizionale (“Bird Of Prey”), certo non da buttare, ma che fatica a lasciare il segno (oh-oh-oh a parte, s’intende).

    Pur con tutte le indicazioni del caso, gli Editors si confermano un gruppo abile nel costruire canzoni, e il frontman Tom Smith riesce persino nel volenteroso tentativo di uscire dai suoi cliché, sia pur inciampando in altri: si sentono, insomma, pronti per il grande salto anche se, al momento, la critica britannica sta storcendo il naso. Ci auguriamo per loro che il pubblico non sia della stessa idea: per certi versi, sarebbe pure un peccato.

    Tracklist

    The Weight
    Sugar
    A Ton Of Love
    What Is This Thing Called Love
    Honesty
    Nothing
    Formaldehyde
    Hyena
    Two Hearted Spider
    The Phone Book
    Bird Of Prey



    ondarock

  15. .

    1372776461755_quadrato140



    San Paolo del Brasile si appresta ad accogliere una grande mostra dedicata al Rinascimento italiano - I maestri del Rinascimento. Capolavori italiani - che dal 13 luglio al 23 settembre, presso il Centro Cultural Banco do Brasil, presenterà al pubblico brasiliano e internazionale la straordinaria ricchezza dell’arte italiana nel momento del suo massimo splendore, attraverso 57 capolavori, provenienti dalle maggiori collezioni pubbliche e private, di 50 tra i più grandi maestri del Rinascimento.
    L’esposizione, che avrà una seconda sede a Brasilia, dal 12 ottobre 2013 al 5 gennaio 2014 sempre presso il centro cultural Banco do Brasil, è curata da Cristina Acidini, insieme a Giovanna Damiani, Maria Rosaria Valazzi, Alessandro Del Priori, Stefano Petrocchi, Marcello Toffanello e Marco Bona Castellotti a cui si devono i saggi introduttivi delle 6 sezioni dedicate: Firenze, Roma, Urbino, Ferrara, Venezia e Milano e l’Italia del Nord.
    La mostra è organizzata da Civita e StArt con la collaborazione di Base 7, la società brasiliana con cui Civita ha consolidato un rapporto di cooperazione, che curerà tutte le attività in Brasile.
    Quando Colombo scopre l’America, l’Italia non è una nazione unitaria, come la Francia, l’Inghilterra e la Spagna, ma è divisa in tanti stati, raccolti intorno ai centri maggiori - Milano, Venezia, Firenze e Roma - ma anche a numerose e più piccole corti, ricche e raffinate. Nella mostra si aprirà con una sezione dedicata a Firenze, che è senza dubbio la culla del Rinascimento, ma nelle sezioni successive documenterà la sua fioritura, che coinvolge un universo molto più ampio, con linguaggi artistici diversificati e soprattutto con una irripetibile concentrazione di grandi maestri, che le corti si contendono come vere e proprie star.
    Emblematico è il percorso di Raffaello tra Urbino, Firenze e Roma, documentato in mostra con tre opere dipinte nelle diverse epoche, che permetteranno di seguire la sua parabola artistica, breve ma dirompente per lo svolgere di tutta l’arte italiana.
    Raffaello, Leonardo da Vinci, Michelangelo, Tiziano sono in qualche modo entrati nel mito, icone assolute della storia dell’arte. Ma insieme a loro l’Italia è percorsa in lungo e in largo da una eccezionale quantità di artisti e di botteghe, che danno vita ad un’immensa produzione artistica, di cui la mostra è una piccola ma significativa campionatura.
    Insieme alle figure degli artisti e ai tratti salienti dei diversi centri rinascimentali, la mostra cercherà di far conoscere l’evoluzione che ha caratterizzato un secolo di storia a cavallo del 1500.
    Con l’Umanesimo si era affermata nel Quattrocento una aspirazione all’equilibrio e all’armonia, alla razionalità e alla proporzione, da conquistare imitando il mondo antico, greco e romano. Ma dalla fine del Quattrocento le scoperte geografiche hanno spostato gli interessi economici, l’invenzione della stampa ha favorito il movimento di riforma della chiesa e quindi la sua reazione, le potenze occidentali si sono scontrate per il dominio anche dell’Italia e nel 1527, con il Sacco di Roma, si giunge perfino a profanare la Città eterna.
    Il sogno umanista si infrange e il Cinquecento diventa un tempo di conflitti, di profondi turbamenti e di nuovi slanci, nel quale anche gli artisti cercano nuovi confini.
    Il percorso espositivo si articola in 6 sezioni, che rappresentano le principali aree territoriali ad esclusione di Napoli e del Sud, già retti da monarchie straniere – prima la Francia e poi la Spagna – con una cultura artistica differente e peculiare.
    La mostra propone quindi un viaggio nel tempo, alla scoperta dei maestri e dei loro capolavori, ma è anche un invito a conoscere l’Italia, le sue città, le chiese, i palazzi e i grandi cicli di affreschi, evocati in mostra da un suggestivo filmato.

    Informazioni Evento:

    Data Inizio:13 luglio 2013
    Data Fine: 23 settembre 2013
    Luogo: San Paolo del Brasile (Brasile) - Centro Cultural Banco do Brasil

    beniculturali
1189 replies since 31/7/2009
.