Posts written by Albrecht

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    Cosa c’è di più rilassante che svegliarsi una domenica mattina inondata dal sole e farsi una bella e lenta girata in bicicletta sui sentieri in mezzo ai prati, col cuore che batte lentamente dettando il ritmo del sentimento? Ecco, immaginate questa situazione e avrete un’idea generale di “Morning Phase”, l’ultimo lavoro di Beck.

    Esplicita parte II di “Sea Change”, con atmosfere rilassate e mattutine, in pace e in armonia con la natura, seguendo ritmi interiori, questo album allinea 47 minuti di brani interamente acustici e lenti, con rarissimi inserti elettrici. Un folk con arrangiamenti che spesso portano archi a supporto, fatti di atmosfere rarefatte e intime, racchiuse in poche pennellate sonore. Pare quasi di sentire gli insetti che ronzano nella quiete antimeridiana, fin dall’iniziale accoppiata “Cycle/Morning”, con la prima che in realtà è solo una intro di archi alla seconda, e ci sussurrano nelle orecchie i tredici brani dell’album, che scorrono uno dopo l’altro, come un ruscello primaverile. La successiva “Heart Is A Drum”, invita a uscire nel sole, stirandosi pigramente, seguita dal canto sofferto e dal banjo di “Say Goodbye”, che forse della serie, soprattutto vocalmente, è quello che più si avvicina alla tipicità di questo artista. A ruota arriva la languida “Blue Moon” - uno dei teaser già usciti in streaming da qualche tempo - che invita a scuotersi dalla malinconia.

    I primi quattro brani sicuramente rendono giustizia al miglior Beck di genere, senza tanti fronzoli o complicazioni, ma tutto il disco è fatto di canzoni semplici, come incredibilmente semplice sembra essere per lui sfornare canzoni. In effetti in pochi nella storia del rock possono dirsi dotati di una capacità di scrittura tanto istintiva da produrre canzoni così naturalmente, esprimendosi con la musica come si fa con la parola o con il linguaggio istintivo del corpo.
    Dicevamo che troviamo tredici canzoni che si susseguono, ma non sempre mantengono desta l’attenzione, soprattutto ai primi ascolti. “Morning Phase” in vari passaggi è un album da meditazione, per far viaggiare la mente. Questo accade soprattutto nella parte centrale. Tra gli acuti da evidenziare ci sono sicuramente “Don’t Let It Go” e “Blackbird Chain”, prima della conclusiva, coinvolgente e quasi commovente, “Waking Light” con la quale si torna al tema del risveglio a chiudere il ciclo.

    Quanto l’appartenenza a Scientology o i recenti malanni fisici abbiano influito sull’album resta un tema sospeso, quel che è certo è che addirittura a tratti capita di ricordare i Pink Floyd acustici della fase immediatamente post-Barrett, ma anche Neil Young, esplicitamente citato in un’intervista come una delle influenze di questo lavoro, come pure le atmosfere del blues del Delta. Personalmente, d’istinto quest’album lo preferisco a “Sea Change”, in quanto tenuto ancora più asciutto con gli arrangiamenti e quindi più aderente all’essenza del folk beckiano. Aggiungiamo che è anche la prima parte di un progetto dell’artista che prevede una seconda uscita più “eclettica” nei prossimi mesi, secondo le sue parole “vibrante di energia live”, e comunque non solo acustica.

    Ora, se questo sia un album memorabile lo dirà il tempo, si può dire che certamente sia un ascolto piacevole, adatto anche a chi non è fan sfegatato di Beck ma ama il folk acustico e rifugge la confusione. Una certa discontinuità tra i brani, si è detto, è uno dei difetti riscontrabili, la semplicità uno dei pregi più evidenti. Godetevelo.

    Tracklist
    Cycle
    Morning
    Heart Is a Drum
    Say Goodbye
    Blue Moon
    Unforgiven
    Wave
    Don’t Let It Go
    Blackbird Chain
    Phase
    Turn Away
    Country Down
    Waking Light

    ondarock
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    A nostro avviso, L’ossessione nordica (la mostra che si apre sabato 22 febbraio a Palazzo Roverella di Rovigo, fino al 22 giugno) andrebbe visitata anche soltanto per una tela. Un quadro che spicca tra gli altri per una nota più enigmatica, silenziosa. Un’ombra luminosa. È Interiør med siddende kvinde (Interno con donna seduta) di Vilhelm Hammershøi, pittore danese nato nel 1864 e morto nel 1916. Perché? Perché Hammershøi è stato uno degli enigmi più affascinanti della storia dell’arte. Lo si riconosce per quegli interni spogli, dove la linearità borghese di Vermeer sembra un’eco leggera. Più simile è alla solitudine moderna che animerà i dipinti di Edward Hopper. Nato a Copenaghen da una famiglia medio borghese, Hammershøi compie dei regolari studi accademici, approfondisce la ricerca sul disegno, conduce un’esistenza monotona, senza clamori e, soprattutto, inizia a viaggiare. Più tardi conoscerà Ida Ilstad, che diventerà sua moglie e il soggetto ricorrente delle sue tele: una donna vista di spalle in interni disadorni. Si può dire che il ritratto “da dietro” è la sua cifra. È questa la caratteristica che fa dell’artista danese uno di quelli che «non si dimenticano» in una mostra: la schiena di una donna, lo sguardo discreto di chi osserva una femminilità non esibita, nascosta nell’intimità domestica e come tale rispettata. C’è l’Interno con donna seduta, appunto. Ci sono Interno con donna al piano e Interno con fasci di luce sul pavimento. Le tonalità sono sempre quelle: chiarori alternati a pozze d’ombra, pochissimi oggetti, un silenzio pittorico indecifrabile. E la stessa vita di Hammershøi è stata, per certi versi, un enigma: quasi coetaneo di Edvard Munch (1863 - 1944), tuttora è poco conosciuto fuori dalla Danimarca. Nonostante il fatto che, in vita, abbia ricevuto molti apprezzamenti. Perché questo parziale silenzio sul pittore che ha inventato «la donna vista di spalle»? Forse perché è morto nel 1916, quando le avanguardie del Novecento si stavano imponendo con prepotenza. Forse perché il sistema dell’arte ha seguito altre logiche. Fatto sta che è stato riscoperto solo da qualche decennio e molto ha influito la mostra che il Musée d’Orsay di Parigi gli ha dedicato nel 1997. Eppure il poeta Rainer Maria Rilke ha scritto bellissime riflessioni su di lui. Piaceva molto a Serge Diaghilev (il maestro dei Balletti Russi) e a Theodore Duret, critico e amico degli impressionisti, che lo presenterà al potente mercante Durand-Ruel. Echi delle sue figure si ritrovano nei film del regista conterraneo Carl Theodor Dreyer. E adesso c’è l’occasione di vederlo a Rovigo, accanto alle tele di Böcklin, Klinger e degli altri nordici.

    www.corriere.it/reportages/cultura/2014/hammershoi/

    corriere.it
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    Sono trascorsi ben sei anni dal celebratissimo “Deathconsciousness”, disco per certi versi unico nel suo genere, affascinante concept dall'irresistibile richiamo underground. Un tempo lunghissimo nel quale Dan Barret e Tim Macuga non hanno fatto altro che continuare a rafforzare le fondamenta della benemerita Enemies List, inanellando a più riprese una serie di progetti paralleli. Nuove creature svezzate in coppia (Nahvlar), da solisti (Barret nei panni di Giles Corey e Dan Barrett and The Cruisers, Macuga nelle vesti di The Flowers of St. Francis), e in formazioni più o meno allargate (No Salvation).
    Insomma, ai due non è di certo mancata la volontà di (ri)tuffarsi nel metal più tenebroso, o più semplicemente di tirare fuori nuove idee, nuovi cerimoniali mediante i quali annichilire la platea e la propria anima. Un mondo ricco di produzioni domestiche e lugubri salotti nei quali rinchiudersi intere giornate, nella viva speranza di smuovere l’istinto musicale nei suoi lati più oscuri.

    “The Unnatural World” si presenta dunque carico di aspettative. Per certi versi, prova a seguire la medesima tetra scia del suo illustre predecessore, palesando una minore pretesa concettuale, mostrandosi più asciutto e compatto sotto il profilo strettamente “rock”. Ciò nonostante, resta ben salda la capacità dei due ragazzi del Connecticut di saper riavvolgere il nastro ad ogni traccia, bilanciando l’ossatura del suono grazie a un’eccellente variazione stilistica, tra incalzanti echi post-gaze (“Defenestration Song”), riverberi industriali, bassi frantumati e corposi al tempo stesso, e improvvise derive noise (“Unholy Life”).

    Il piatto è quindi ancora una volta molto ricco, così come le parole trasudano una recondita disperazione e una struggente inquietudine. In tal senso, i primi versi dell’open-track lasciano poco spazio a qualsiasi fantasia: "The Vigilant Digger will dig my grave of an earth made of things I cannot say, and build a cenotaph that stands where we once kneeled".
    Non mancano comunque momenti più rilassati, ma non per questo meno sentiti e ispirati (la splendida “Burial Society”), pause strumentali a invocare arcaici rituali (“Music Will Unntune The Sky”), andazzi post-punk densi di tetraggine dal titolo inaspettatamente ironico (“Dan & Tim, Reunited By Fate”), e il solito feedback in lontananza da cornice all’ennesimo urlo di dolore (“Cropsey”).

    A chiudere l'album è un’oscura e placida liturgia sonora che pare fornire un piccolo bagliore di speranza, quasi da contrappasso a questo mondo sempre più frenetico e tremendamente "innaturale" ("Emptiness Will Eat The Witch").

    ondarock

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    Occhi languidi e sognanti, tinte azzurre e giallo ocra, una fanciulla misteriosa su sfondo nero e i riflessi si una perla a contendere l’attenzione a quello sguardo sensuale. Stiamo naturalmente parlando della “Ragazza col turbante”, capolavoro di Vermeer, noto al grande pubblico come la “Ragazza con l’orecchino di perla“, indiscussa protagonista della mostra sulla Golden Age della pittura olandese, ospitata a Bologna dal prossimo 8 febbraio fino al 25 maggio 2014.

    Una mostra che ha i caratteri dell’eccezionalità e della irripetibilità. L’occasione è infatti data dalla chiusura per restauri di uno tra i più raffinati musei al mondo, il Mauritshuis dell’Aia, scrigno di tanti capolavori che raccontano quella che è stata denominata la Golden Age, l’età dell’oro della pittura olandese nel corso del XVII secolo. In attesa di una rinnovata sede stabile, il capolavoro di Vermeer è quindi divenuto cuore pulsante del selezionatissimo tour mondiale inaugurato nel 2012 con le tappe di Tokyo e Kobe e proseguito nel 2013 con le esposizioni di San Francisco, Atlanta e infine New York. La sola data europea sarà proprio quella di Bologna, dove, a Palazzo Fava, alla Ragazza con l’orecchino di Perla è stata riservata un’intera sala. Il quadro tornerà quindi in Olanda, in tempo per la riapertura del Mauritshuis nel giugno dello stesso 2014. Un’occasione unica e irripetibile per ammirare quella che, assieme alla Gioconda di Leonardo e L’urlo di Munch, è unanimemente riconosciuta come una delle tre opere d’arte più note, amate e riprodotte al mondo.

    Dal 1 febbraio la mostra è aperta a piccoli gruppi che su prenotazione (pagando tre volte il prezzo del biglietto) si sono aggiudicati un tour esclusivo; sono già state superate le 100 mila prenotazioni e si prevedono perle prossime settimane oltre 230mila presenze, con un significativo ampliamento degli orari di apertura, tanto che il giorno dell’inaugurazione al pubblico, l’8 febbraio, l’orario è già stato prolungato dalle 9 alle 22.

    Ad accompagnare il capolavoro di Veermer nel suo tour mondiale, 37 selezionatissimi dipinti incarneranno il mito della Golden Age, da Veermer a Rembrandt passando per Hals, Steen e Ter Borch. Sei le sale che a Palazzo Fava ospiteranno i capolavori del seicento olandese: nella prima si potranno ammirare i dipinti che ricordano la storia del museo Mauritshuis; la seconda, denominata Paesaggi, accoglie alcune opere di van Ruisdael; la terza, Ritratti, comprende celebri dipinti di van Rijn; la quarta, denominata Interni con figure, ospita Diana e le sue ninfe, sempre di Veermer; la quinta, Nature Morte, accoglie i capolavori di Pieter Claesz, ed infine la sesta, con una temperatura controllata di 21° C e la quasi totale assenza di luci, dedicata interamente al capolavoro de “La ragazza con l’orecchino di perla”.

    Non è dato sapere se la giovinetta fosse la figlia dell’artista (ne ebbe ben 14), o una domestica che ne catturò le fantasie, come vogliono il romanzo ed il film di cui la bellissima ragazza dal copricapo color del cielo è diventata, forse suo malgrado, protagonista. Quel che invece è certo è il potere ammaliante, la bellezza e il mistero del volto che da oltre tre secoli continua a stregare coloro che hanno la fortuna di ammirarlo dal vero. “Un concentrato di bellezza ideale, di moti interni ed indomite emozioni che si condensano nel non detto delle dolci labbra appena socchiuse, per travalicare il tempo fino all’eterno.”

    leonardo.it
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    Due volti, solitamente. Un paesaggio, in alternativa. Poi, due figure che si incontrano. Con l’inerte che prende vita. E non torna più indietro. Meraviglie del digitale, che arriva lì dove il pittore, in fondo, sarebbe voluto sempre arrivare. Oltre la pennellata fissa. Oltre il movimento solo abbozzato, ma mai compiuto. Beauty, il corto firmato da Rino Stefano Tagliafierro è tutto questo, e molto altro. «Sulla bellezza aleggiano da sempre le nubi del destino e del tempo divoratore. La bellezza è cantata, raffigurata e descritta fin dall’antichità come l’attimo fuggente della felicità. Ma in quelle immagini la storia dell’arte ci ha consegnato un movimento congelato, che l’oggi può rivitalizzare grazie al fuoco dell’inventiva digitale» scrive Giuliano Carli nella presentazione.

    E fin dall’incipit si coglie il senso della bellezza, a partire da quell’«alba romantica nel cui cielo volano grossi uccelli neri, mentre il finale del tramonto romantico, con rovine gotiche, compie l’opera del tempo che fugge, soffiando sulla precarietà della bellezza». Nei circa dieci minuti che seguono, il digitale riporta in vita i classici, con le musiche di Enrico Ascoli e i quadri messi in fila dall’artista 30enne. Perché in fondo «la bellezza in questa interpretazione è la compagna silenziosa della vita, che inesorabilmente procede dal sorriso del bambino».

    http://video.corriere.it/corto-dove-quadri...2e-831830ba1aa5

    corriere.it
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    Da Bologna che prende in prestito la celeberrima "Ragazza con l'orecchino di perla" a Frida Kahlo alle Scuderie del Quirinale. Dalla grande antologia dei restauri a Ravenna ai focus su Matisse e Michelangelo. Ecco gli eventi da non perdere nel nuovo anno

    Sarà lei la star dell'anno che sta per iniziare. "La ragazza con l'orecchino di perla", quella dipinta dal celebre pittore olandese Jan Vermeer (1632-1675), custodita al museo de L'Aia. Nei primi mesi del 2014 arriverà in Italia, a Bologna esattamente, dove, dall'8 febbraio al 25 maggio, sarà esposta a Palazzo Fava insieme a celebri opere raccolte nella mostra collettiva "Il mito della Golden Age, da Vermeer a Rembrandt. Capolavori del Mauritshuis". Manca più di un mese all'inizio ma già si parla di oltre quindicimila biglietti venduti in otto ore dall'apertura delle prenotazioni. Ma il fatto che Vermeer ha catalizzato l'attenzione non significa che ci sarà soltanto lui. Per chi è impaziente la fine di gennaio offre già belle mostre come quella di Merano Arte che ospita "Ugo Mulas. Circus Calder" dal 31 gennaio al 18 maggio, esponendo in anteprima 36 immagini originali, scattate tra il 1963 e il 1964 all'opera giovanile di Alexander Calder, oggi conservata al Whitney Museum di New York.

    Poi si inizia con un calendario pieno zeppo di inaugurazioni, soprattutto nel secondo mese dell'anno. A Forlì dal 1° febbraio al 15 giugno nei Musei San Domenico torna protagonista il Liberty. A Roma, alla Gallerie Borghese di Roma, il 4 aprirà al pubblico "Giacometti. La Scultura" una quarantina di opere di uno dei principali scultori del '900, i cui pezzi saranno esposti in dialogo con quelli presenti in Galleria, offrendo un excursus della "statua" nelle varie epoche storiche. A Venezia dall'8 febbraio al Museo Correr due mostre sul tema della metropoli: "L'immagine della Città Europea dal Rinascimento al Secolo dei Lumi" e "Fernand Leger e la visione di città contemporanea". A Rovereto, dal 15 febbraio all'8 giugno, sarà protagonista El Lissitzky, l'artista russo a cui il museo Mart dedica una retrospettiva, con oltre 100 opere provenienti da importanti istituzioni internazionali. Al Museo d'Arte della città di Ravenna (Mar), nella Loggetta Lombardesca, dal 16 febbraio al 15 giugno, ci sarà "L'incanto dell'affresco. Capolavori strappati. Da Pompei a Giotto da Correggio a Tiepolo", con opere che cronologicamente documentano la storia delle varie tecniche di restauro e conservazione dei capolavori del nostro Paese, da primi masselli cinque-seicenteschi, ai trasporti settecenteschi, compresi quelli provenienti da Pompei ed Ercolano, agli strappi ottocenteschi, fino alle sinopie staccate negli anni Settanta del Novecento.

    A Firenze, presso la Galleria dell'Accademia, ci sarà "Ri-conoscere Michelangelo, La scultura del Buonarroti nella fotografia e nella pittura dall'Ottocento ad oggi", dal 18 febbraio al 18 maggio in occasione delle celebrazioni per i quattrocentocinquanta anni esatti dalla morte del maestro, che avvenne proprio il 18 febbraio, nel 1564. A Rovigo, al Palazzo Roverella, dal 22 febbraio al 21 giugno c'è "L'ossessione nordica. Boecklin, Klimt, Munch nella pittura italiana", una mostra che è un approfondimento sulle influenze dei pittori nordici sui nostri artisti italiani, che li hanno conosciuti attraverso le prime Biennali. Stesse date per la mostra di Matisse al Palazzo dei Diamanti di Ferrara: "La forza della linea, l'emozione del colore" è una retrospettiva che unisce ritratti ed autoritratti, ma anche bronzi e disegni. Quando il calendario segna l'8 marzo, Firenze a Palazzo Strozzi ospiterà la grande mostra di Pontormo e Rosso Fiorentino, mentre alle Scuderie del Quirinale di Roma aprirà dal 20 marzo una grande mostra di Frida Kahlo 1907-1954). L'artista simbolo dell'avanguardia artistica e dell'esuberanza culturale del Messico, lascerà, come sempre, stupiti davanti ai suoi colorati dipinti, che oltre ad essere specchio della sua vita sono anche fotografia di un'epoca irripetibile.

    Nello steso mese al Maxxi si terrà la prima delle tre mostre dedicate a Ettore Spalletti in un viaggio espositivo ideale che toccherà anche Torino (GAM) e Napoli (MADRE), con inaugurazioni a poche settimane di distanza l'una dall'altra. Risponde con l'arte contemporanea anche Milano, dove a Palazzo Reale una retrospettiva dedicata a Piero Manzoni - quella annunciata per ottobre 2013 ma mai realizzata- sarà visibile a partire da marzo. Sempre a marzo al Museo Fortuny di Venezia, aprirà l'esposizione "Dora Maar, Nonostante Picasso": una mostra in cui finalmente viene riconosciuto il lavoro della fotografa, nota soprattutto per essere stata l'amante del celebre artista di Malaga. E con Venezia si continua ad aprile dove sono attese tre nuove esposizioni a Palazzo Grassi e Punta della Dogana con la Pinault Collection: una mostra tematica, "L'Illusione della luce", una retrospettiva monografica dedicata a Irving Penn, e un progetto specifico affidato all'artista contemporaneo Wade Guyton.

    Dal 24 maggio, sempre in laguna, alla Peggy Guggenheim Collection inizia "Solo per i tuoi occhi. Una collezione privata, dal Manierismo al Surrealismo", un'esposizione con opere di Pieter Brueghel il Vecchio, Giorgio de Chirico, Francesco Clemente, Salvador Dalí, Max Ernst, René Magritte, Man Ray e Andy Warhol. Chiudiamo questo primo semestre ricco di eventi artistici proprio a Venezia: il 7 giugno infatti, inaugura la 14° Biennale di Architettura, quest'anno diretta da Rem Koolhaas.

    repubblica.it
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    Ci sono due maniere per affrontare l’ascolto dell’ultimo album di Josephine Foster, una accompagnata da una flebile sensazione di noia e prevedibilità per una musica che può apparire poco innovativa, e un’altra attratta dall’innegabile talento interpretativo della musicista americana.
    Dotata di un timbro vocale raro e prezioso, la Foster mette a frutto il suo passato di maestra di canto sottolineando ogni sua interpretazione con passione ma anche insofferenza: proprio questo le permette di affrontare varie culture musicali svelandone luci e ombre.
    Dopo aver rinnovato il raffinato mondo del folk psichedelico con “Hazel Eyes, I Will Lead You” e dopo aver ribaltato il concetto di musica seria a discapito della musica pagana nell’intrepido “A Wolf In Sheep's Clothing/Ein Wolf in Schafspelz”, la musicista del Colorado non si è fatta mancare nulla: poesia in “Graphic As A Star”, avant-folk in “Blood Rushing”, surrealismo in“Anda Jaleo” e rock-blues psichedelico in “This Coming Gladness”, senza mai rinunciare a quell’austerità sonora che smaterializza il tutto trascinandolo in una dimensione aulica.

    Eterea e fuori da qualsiasi collocazione temporale, la musica di Josephine Foster appartiene all’infanzia (tra le sue produzioni un album di canzoni per bambini “Little Life”), ai ricordi e alla speranza. “I’m A Dreamer” è in verità l’ennesima dimostrazione della volontà della Foster di annullare il divario tra musica colta e popolare. La ricerca storiografica e sonora viaggia su un unico binario dove ogni scelta stilistica diventa elemento di una purezza artistica che può solo affascinare e sedurre: la sua rilettura della grande tradizione musicale americana è ora più ortodossa rispetto al minimalismo spettrale di “Hazel Eyes, I Will Lead You”, e la scrittura è più malleabile e appassionata.
    Registrato a Nashville, il nuovo progetto della Foster apre le porte al jazz da torch-song richiamando le atmosfere fumose dei bordelli e dei saloon: tra i musicisti brilla la presenza di Micah Hulscher (già alla corte di Jackson Browne, Bob Dylan, Michael Jackson), pianista di formazione classica e jazz innamorato della tradizione americana. Il tocco leggiadro e il timbro deciso di Micah sottolinea le composizioni della Foster: la leggiadria di “My Wandering Heart” e la poesia di “I’m A Dreamer” scivolano con classe, la stessa che fa di “Magenta” uno dei vertici creativi dell’album, nella quale voce, piano e basso vibrano all’unisono con la voce della cantautrice per un attimo di puro e intenso piacere.

    Più accessibile e seducente, “I’m A Dreamer” gode di una solida scrittura, anche se il languore di “No One’s Calling Your Name”, il tono bohémien di “This Is Where The Dreams Head, Maude” e il melodramma di “Amuse A Muse” (Nico incontra Dolly Parton) svettano come la polvere trascinata dal vento sui resti di una casa abbandonata.
    Vigoroso e dilettevole il nuovo album della Foster evita i cliché anche nelle liriche che trasformano luoghi e situazioni familiari in photo-frame di grande impatto e bellezza, offrendo la possibilità di ampliare il suo pubblico senza cedere in qualità e spessore, sfiorando insomma la perfezione.

    Tracklist
    Sugarpie I'm Not the Same
    No One's Calling Your Name
    My Wandering Heart
    I'm a Dreamer
    Amuse a Muse
    Blue Roses
    Pretty Please
    Magenta
    This Is Where the Dreams Head, Maude
    Cabin in the Sky

    ondarock
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    «Three Studies of Lucian Freud» è stato battuto all’asta da Christie’s alla cifra da capogiro di 142,4 milioni di dollari

    Il trittico di Francis Bacon dal titolo «Three Studies of Lucian Freud» è stato battuto in un’asta di Christie’s a New York per la cifra record di 142,4 milioni di dollari (oltre 106 milioni di euro): diventa così il quadro più pagato della storia. Per aggiudicarsi l’opera, del 1969, si sono dati battaglia numerosi collezionisti, anche se alla fine Christie’s non ha voluto rivelare il nome dell’acquirente. Si partiva da una cifra di 85 milioni di dollari.

    IL RECORD PRECEDENTE - Battuto dunque il precedente primato, che apparteneva a «L’Urlo» di Edward Munch, venduto nel maggio dello scorso anno a 119,9 milioni di dollari (circa 89 milioni di euro) nel corso di un’asta di Sotheby’s. L’asta ha anche superato un altro record , sempre messo a segno da Sotheby’s nel 2008, quando la casa d’aste aveva venduto un trittico di Bacon del 1976 per 86 milioni di dollari all’oligarca russo Roman Abramovich. E, secondo alcune voci, anche dietro l’acquisto del trittico ci sarebbe il collezionista miliardario russo.

    LE ALTRE OPERE - Nella sede di Christie’s al Rockefeller Center, saranno battute anche un’altra dozzina di opere la cui quotazione supera i 20 milioni di dollari: tra queste c’è una scultura di Jeff Koons stimata tra i 33 e i 55 milioni di dollari. Nella schiera dei venditori ci sono anche il musicista Eric Clapton, il miliardario Steve Cohen e il magnate Peter Brant.

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    corriere.it
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    In quanti nella prima metà degli anni 90 avrebbero ucciso per Eddie Vedder? Tale era il suo ascendente verso i giovani della Generazione X, e tanto era adorato dalle masse, che lui stesso ebbe a un certo punto paura di affrontare quell’immensa popolarità che divenne una delle principali cause del suicidio di Kurt Cobain, l’altra grande voce del disagio adolescenziale messo in musica perfettamente dall’intero movimento grunge.
    Sono passati ventidue anni dalla pubblicazione del multimilionario (in termini di copie vendute) “Ten”, e i Pearl Jam restano fra i pochi protagonisti dell’epoca ancora in piedi e ancora in grado di dare alle stampe dischi iper-attesi, credibili e autorevoli. Certo, la rabbia che fece grandi i primi tre album della band di Seattle non c’è più da tempo, e difficilmente potrebbe esserci dopo oltre sessanta milioni di copie vendute in giro per il globo, ma il percorso dei Pearl Jam continua a essere più che rispettabile.

    Il suono complessivo del nuovo album, il decimo in studio, non si discosta molto dalla loro produzione più recente e, diciamolo francamente, non riesce ad aggiungere nulla di nuovo a una storia comunque ricca di picchi importanti. Ma questo non significa che si tratti di un lavoro inutile, o del quale si sarebbe potuto tranquillamente fare a meno.
    No, siamo felici che i Pearl Jam siano ancora qui: solo dio sa quanta fatica ci costa non poter più ascoltare un nuovo disco con la voce di Cobain o di Layne Staley, due fra le anime più dannate dell’ultimo grande movimento che la musica rock sia stata in grado di produrre.
    Oggi ascoltare un nuovo disco dei Pearl Jam è come riabbracciare un caro vecchio amico, del quale sappiamo praticamente tutto, ospitarlo fra le mura delle nostre case, offrirgli da bere: è un piacere averlo accanto, non ti stancheresti mai di discorrere con lui, anche se magari dopo tanti anni non può più sorprenderti. Quindi siediti pure Eddie, e sorseggiamo assieme questo nuovo cocktail che hai deciso di chiamare “Lightning Bolt”.

    Due singoli hanno anticipato l’album, li abbiamo già ampiamente metabolizzati, e sono fra i momenti più riusciti e caratterizzanti: “Mind Your Manners” con la sua (in parte piacevolmente spiazzante) attitudine quasi hardcore e “Sirens” con le eleganti delicatezze pronte ad avvolgere l’ascoltatore e la solita voce che cattura. Probabilmente saranno proprio questi gli stralci di “Lightning Bolt” destinati a restare fra i classici del gruppo. Anche “Sleeping With Myself” era già nota, in quanto contenuta (ma la versione era più spartana) in “Ukulele Songs”: un brano al quale Vedder ha voluto concedere una seconda opportunità, lasciandolo rivestire di un sobrio arrangiamento full band.
    Per il resto “Lightning Bolt” è idealmente divisibile in due: per metà abbastanza tradizionalmente Pearl Jam, e per questo anche abbastanza prevedibile, per l’altra metà rivolto verso nuove strade, ma non è detto che la migliore sia quest’ultima. Dodici tracce dove all’improvviso spuntano fuori gli accenti urban blues di “Let The Records Play” o le intriganti rarefazioni da brividi a fior di pelle di “Pendulum”, una delle vette assolute del disco, con un testo basato sulle oscillazioni che caratterizzano la natura umana, un brano che testimonia quanto la coppia Ament / Gossard sia in grado ancora di costruire grandi pezzi.

    La produzione torna salda nelle mani di Brendan O’Brien che, ricordiamolo, ha firmato gran parte dei migliori lavori del combo di Seattle, ed anche in questo caso contribuisce a mantenere il disco compatto, alla ricerca dei giusti equilibri fra gli efficaci episodi elettrici (“My Father’s Son”, con il basso di Jeff Ament sugli scudi, la contagiosa “Infallible”), e le impareggiabili dolcezze sulle quali la band va oramai sul sicuro (le conclusive “Yellow Moon”, con tanto di solo del guitar hero Mike McReady e “Future Days”, con contorno di archi) direttamente figlie del Vedder di “Into The Wild”. C’è poi qualche compitino ben svolto, che magari troverà linfa vitale nella tanto attesa prova live, come nel caso di “Swallowed Whole”, della title track e dell’iniziale “Getaway”, rafforzata da uno di quei ritornelli che una volta ci facevano sentire al centro del mondo.
    Di furore grunge, come dicevamo più sopra, ovviamente non c’è più traccia, ma del resto già da “No Code” i Pearl Jam in maniera lungimirante decisero di cambiare direttrici sonore, imponendosi nel tempo come una delle più grandi modern classic rock band al mondo, con le liriche di Vedder in grado di segnare un plus che altri frontmen-songwriter possono solo sognare di raggiungere.

    “Lightning Bolt” è un album per metà egregio e per l’altra metà semplicemente onesto, ma pregno di questa onestà che continua a porre i Pearl Jam di gran lunga al di sopra di tutto quel “mordi e fuggi” che caratterizza il panorama musicale dei nostri tempi. Le nostre orecchie e la nostra attenzione sono troppo spesso distratte da un eccesso d’offerta musicale che non potrà mai essere assorbita da un’adeguata domanda. In tale caos discografico fermarsi un attimino ad ascoltare questi cinque ex-ragazzi è anche il modo di ringraziarli per tutte le emozioni che ci hanno regalato in passato.
    Un atto dovuto da tutti coloro che hanno sognato, pianto, trovato le spiegazioni del proprio malessere nella poetica di “Ten”, “Vs” e “Vitalogy”. Perché Vedder è un po’ come Woody Allen: continui ad amarlo anche quando non gli esce un prodotto esattamente memorabile. Resta qui e versati un altro bicchiere, caro vecchio Eddie.

    Tracklist

    Getaway
    Mind Your Manners
    My Father’s Son
    Sirens
    Lightning Bolt
    Infallible
    Pendulum
    Swallowed Whole
    Let The Records Play
    Sleeping By Myself
    Yellow Moon
    Future Days

    ondarock

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    Molti di noi si sono sentiti per un attimo dei Robin Hood, dei ladri innocenti pronti ad essere scusati, quando qualche mese fa abbiamo cercato di catturare nei nostri hard disk le canzoni diffuse all'improvviso da uno sconosciuto account di SoundCloud. Non potevamo credere alle nostre orecchie, e sulle prime avevamo anche il dubbio che a cantare non fosse Paddy McAloon - il genio recluso del pop britannico che, complici le non felici condizioni di salute degli ultimi dieci anni, ci abitua a lunghissimi silenzi e ha accumulato un tesoro inestimabile di canzoni scritte e mai pubblicate, rimaste sulla carta o conservate in provini realizzati con un vecchio computer Atari a floppy disk - ma un suo imitatore. Eppure la voce, infine, era proprio la sua: una voce che incredibilmente non è cambiata per niente, al contrario del suo logorato aspetto fisico, della sua lunga barba e dei suoi eccentrici abiti sgargianti. Non sapevamo nulla delle dieci canzoni che ci siamo ritrovati tra le mani: sono nuove di zecca o provengono dai suoi archivi, come è avvenuto con il lost album "Let's Change The World With Music" pubblicato quattro anni fa e tenuto nel cassetto per diciassette anni? In quale ordine sarebbero state presentate in un disco? E soprattutto, questo disco sarebbe poi uscito?

    Che si sia trattato di uno degli incidenti più piacevoli della storia della musica leggera nell'era del 2.0, o di una strategia che sorpassa in furbizia persino quelle dei Radiohead dei tempi più recenti, poco importa. Tom Robinson, cantautore "contro" e co-autore di brani di Elton John e Peter Gabriel e oggi apprezzato speaker radiofonico della BBC, stava quasi per trasmettere per intero questo misterioso album - fortuna che poi ci ha pensato Wendy Smith a fermarlo, assicurandolo che ci sarebbe stata una release ufficiale dopo l'estate. Nel frattempo, "The Devil Came A-Calling" (con dieci brani disposti in ordine alfabetico) è diventato "Crimson/Red": un titolo eccentrico a dir poco, che richiama stranamente "Red" dei King Crimson ma che ha a che fare molto di più con il rosso della passione che con le distantissime sonorità della band di Robert Fripp. Il lavoro più personale di un artista cui è sempre piaciuto parlare d'amore giocando con le parole e inserendo riferimenti letterari, celebrare con orgoglio il pantheon dei maestri del pop cui piace essere accostato e, specialmente in passato, all'occasione giusta anche scatenare qualche polemica frizzantina. Qui Paddy McAloon continua a fare ciò che ha sempre fatto con successo, indossando i panni confortevoli del cantastorie, ma al tempo stesso si racconta più di quanto abbia mai fatto in trent'anni di carriera ("I Trawl The Megahertz", uscito a suo nome, fa storia a sé). Lo fa a modo suo, indugiando in suggestive metafore, partendo dai sogni dell'adolescenza al successo che bussa alla porta e poi se ne va. Thomas Dolby, il produttore delle sue due opere più preziose e celebrate ("Steve McQueen" e "Jordan: The Comeback"), lo ha sempre detto chiaro e tondo - i dischi dei Prefab Sprout sono vere e proprie opere letterarie che andrebbero vendute nei bookshop (e, aggiungiamo, assaporate e analizzate con estrema attenzione). E "Crimson/Red" non fa eccezione.

    Nonostante si tratti di un lavoro realizzato in casa, senza l'aiuto di altri musicisti (non c'è traccia neppure del fratello Martin) a causa delle difficoltà dovute agli acufeni, stavolta il tutto riesce a suonare più "vero" rispetto a una semplice raccolta di demo risistemati da Calum Malcolm (musicista e ingegnere del suono già complice dei Blue Nile di Paul Buchanan, degli Orange Juice, dei Deacon Blue e degli It's Immaterial). Paddy McAloon, com'è stato reso noto nelle ultime settimane, era in debito di un album con la sua nuova casa discografica ma in prossimità della deadline si è ritrovato a fare in fretta e furia una cernita di brani lasciati per anni nel cassetto e ad abbandonare, dunque, il nuovo lavoro iniziato da zero. I dieci diamanti grezzi con cui oggi ci vizia sono, dunque, una sorta di personale best of di tutti quei suoi svariati progetti mai conclusi dall'inizio degli anni Novanta in poi, di cui si è tanto fantasticato: sebbene "Crimson/Red" sia stato effettivamente registrato nell'arco di due mesi, accanto a brani nuovi di zecca come "Billy" ci sono recuperi che risalgono anche al 1997 (è il caso, per esempio, di "The Old Magician", composta dall'artista dopo aver compiuto il suo quarantesimo compleanno). "The Songs Of Danny Galway" è un'autentica pagina di diario che ricorda l'incontro con Jimmy Webb, professore del pop a stelle e strisce, con cui duettò dal vivo più di vent'anni fa; nel celebrarlo imita affettuosamente anche le sonorità e la struttura dei classici dell'autore di "MacArthur Park" e "By The Time I Get To Phoenix". "Con le parole dipinge una scena vivida, ti porta in posti in cui non sei mai stato / eppure, ascolti e sei fin pronto a giurare di conoscere quella casa, di aver salito quella scala", ci rivela Paddy sullo "stregone di Wichita" e sull'effetto che provoca l'ascolto della sua musica. Webb potrebbe essere stato indirettamente rievocato anche in "Billy": se non fosse per l'armonica sintetizzata e per il suo incedere country-western (territorio già percorso con l'incerto "The Gunman And Other Stories"), il brano si potrebbe confondere senza alcuna difficoltà nel songbook di un Cole Porter, o di un Burt Bacharach (magari complice un B. J. Thomas imparentato alla lontana, interprete di "Raindrops Keep Falling On My Head", che già cantò di Billy e Sue in una sua canzone negli anni Sessanta), o dell'amato Brian Wilson (non si chiamava forse "The Private Life Of Billy And Sue" un brano dei suoi Beach Boys?), anche se alla fine è più plausibile che la fonte di ispirazione del testo sia il libro "Trumpet" di Billy e Susan Hayes, ambientato a Londra nel primo Ottocento. C'è anche lo spirito di Bob Dylan che aleggia su "Mysterious" e fa amabilmente lo gnorri in "The Devil Came A-Calling", in cui la fama si presenta sventolando un contratto e promettendo potere, benessere e una villa nella Fellatio Drive (a un certo punto il diavolo mostra a un giovane Patrick il mondo, gli getta le chiavi e lo presenta a donne che si inginocchiano davanti a lui), mentre la chitarra languida di "Grief Built The Taj Mahal" tradisce semmai vaghi richiami a David Sylvian e allo Stevie Wonder (ospite dei Prefab Sprout in "Nightingales", nel 1988) di "Visions".

    Il cantautore è un ladro di gioielli o siamo noi i furfanti che li abbiamo scaricati avidamente quando li abbiamo rintracciati in rete, con tanto di acquolina in bocca, quelli che l'Interpol sta ricercando a sirene spiegate all'inizio di "The Best Jewel Thief In The World"? Ai posteri l'ardua sentenza. Ciò che conta è che finalmente, dopo tanti anni, McAloon è riuscito a sfornare un altro ritornello che stende al tappeto, una melodia indovinatissima e stavolta diretta, per nulla arzigogolata. Zero fronzoli. Non ci si preoccupi, è perfettamente normale che "The Old Magician" tocchi a tal punto da far lacrimare dalla commozione anche il cuore più duro: il vecchio mago non può che essere Paddy stesso, di fronte a una platea che (lui dice...) non si scalda più. The tired act that no-one loves un tempo produceva colombe, ora i suoi misteri sono una burla e pure la sua assistente (inequivocabilmente si parla di Wendy Smith, ai tempi controcanto femminile e compagna di vita di McAloon) è stanca di essere "segata in due". "Non gli resta che inchinarsi per l'ultima volta, ora ha perso tutte le sue illusioni". Ma siamo sicuri che non ci sia più posto nelle hit parade per il pop classico ed elegiaco dei Prefab Sprout? Il calore dei fan si è fatto sentire eccome, e ha permesso che "Crimson/Red", nei primi due giorni dall'uscita, si piazzasse al secondo posto tra i dischi più acquistati e prenotati su una nota piattaforma internazionale di e-commerce, subito dopo gli Arctic Monkeys. Oggi Paddy è un fiume in piena, provato dalla vita eppure sereno, e parla di sé alla BBC come a Paul Smith dei Maximo Park, arrivando a non escludere di poter tornare un giorno con un album prodotto ancora una volta dal sodale Thomas Dolby. Tutte indiscrezioni che non possono che lasciarci la speranza che questo "Crimson/Red" - che si rivela il disco più consistente e stupefacente dei Prefab Sprout dai tempi di "Jordan: The Comeback" - non sarà affatto il final bow di un prestigiatore che continua, dall'Olimpo dei grandi, a colorare di rosso cremisi anche le nostre giornate più fosche. Ora speriamo solo che il diavolo non si dimentichi di lui e che lo metta alle strette un'altra volta. In fondo Paddy ce l'aveva detto sin dall'inizio, con uno dei suoi primi singoli: the devil has all the best tunes.

    Tracklist

    The Best Jewel Thief In The World
    List of Impossible Things
    Adolescence
    Grief Built The Taj Mahal
    Devil Came A Calling
    Billy
    The Dreamer
    The Songs Of Danny Galway
    The Old Magician
    Mysterious

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    Si inaugura il 12 ottobre 2013 a Cherasco, nella storica sede di Palazzo Salmatoris, che negli scorsi anni ha ospitato rassegne di Carrà, De Pisis, Campigli e di altri maestri del Novecento, la mostra “SIRONI. LA GRANDIOSITÀ DELLA FORMA. Quadri, opere monumentali, disegni, inediti” a cura di Cinzia Tesio.

    La mostra, che comprende circa sessanta opere tra dipinti, studi monumentali per affreschi e disegni, documenta tutta la pittura di Mario Sironi, dagli esordi agli ultimi anni. Tema della rassegna è la grandiosità dello stile dell’artista, che si evidenzia non solo nelle opere monumentali, ma anche nei fogli più piccoli. Quello di Sironi è un “far grande” mentale, che non dipende dalle misure dell’opera, ma dall’energia e dalla forza del suo linguaggio.
    La rassegna oscilla dunque fra la misura grande (di cui comprende un nucleo importante di opere, proveniente in gran parte dalla collezione museale dello CSAC, Centro Studi e Archivio Comunicazioni di Parma, come lo splendido cartone per L’Italia fra le Scienze e le Arti del 1935; i cartoni per l’affresco Rex Imperator del 1937 con lo spettacolare Figura con elmo, alto più di tre metri; I due soldati del 1936; la grande Composizione con fregi decorativi sempre del 1936 e altre ancora) e la misura piccola.
    Entrambe, la dimensione grande e la dimensione piccola, sono segnate da una identica potenza espressiva.
    La mostra comunque documenta ogni fase della ricerca di Sironi: il momento giovanile, con una inedita Natura morta con brocca del 1903, disegnata dall’artista quando aveva solo diciotto anni; la stagione divisionista (Madre che cuce, 1905); la stagione futurista e metafisica degli anni Dieci; la stagione novecentista e classica degli anni Venti, che comprende tra l’altro L’Architetto, 1922 (uno dei massimi capolavori dell’artista, esposto alla Biennale di Venezia del 1924), alcune Periferie e la suggestiva Architettura con vestale e atleta del 1929; il momento espressionista, con lo straordinario San Martino, 1930, presentato alla Quadriennale di Roma del 1931; e con un Paesaggio dello stesso 1930 (non più esposto dopo la mostra di Stoccolma e Oslo del 1931); la pittura murale degli anni Trenta; la stagione neometafisica; le periferie degli anni Quaranta e del dopoguerra. A quest’ultimo periodo appartengono Lo scalo, 1952 (un paesaggio urbano non più esposto da mezzo secolo) e i due paesaggi urbani del 1945 e 1946 della collezione della Banca Popolare di Milano.
    Punto di forza della mostra è anche la presentazione, per la prima volta, di un significativo gruppo di una quindicina di inediti, appartenuti alla moglie del maestro, Matilde, e rintracciati nel corso delle sue ricerche da Elena Pontiggia, studiosa di Sironi: opere quasi sempre di dimensioni contenute, ma di intensa suggestione, come il coloratissimo Borghesi e tram del 1916, tassello finora sconosciuto del periodo futurista sironiano; il Sollevatore di pesi, 1919, del periodo metafisico; il Paesaggio urbano con lampionedel 1920, l’elegiaco Nave sul mare con arcate del 1927.
    Accompagna la mostra un catalogo con testi della curatrice e di Elena Pontiggia, alla quale si devono anche le analitiche schede delle opere, e in particolare degli inediti.

    Orario:
    da mercoledì a sabato, ore 9,30/12,30 - 14,30/18,30
    Festivi, ore 9,30/19,00
    Le biglietterie chiudono alle ore 18,00 e alle ore 18,30

    Biglietteria
    Interi 5,00
    Ridotti (da 12 a 18 anni e ultrasessantenni, studenti universitari) € 4,00
    Visite scolastiche (Materne, Scuola dell’Obbligo e Superiori) € 2,00

    Riduzione per gruppi organizzati e prenotati
    Festivi e prefestivi possibilità di visita con guida artistica (compresa nel biglietto)
    Lunedì e martedì su prenotazione

    Informazioni Evento:

    Data Inizio:12 ottobre 2013
    Data Fine: 12 gennaio 2014
    Costo del biglietto: 5,00 euro
    Luogo: Cherasco, Palazzo Salmatoris
    Orario: da mercoledì a sabato, ore 9,30/12,30 - 14,30/18,30 Festivi, ore 9,30/19,00
    E-mail:
    Sito web: http://twitter.com/sironiacherasco http://

    Dove:

    Palazzo Salmatoris
    Città: Cherasco
    Indirizzo: Via Vittorio Emanuele 29
    Provincia: CN
    Regione: Piemonte

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    La Galleria Nazionale di Palazzo Spinola prosegue l’attività di approfondimento del proprio patrimonio e della cultura artistica che documenta, presentando per la prima volta dopo il restauro, eseguito dal laboratorio di Nino Silvestri, cinque tavole di significativi pittori fiorentini attivi all’inizio del Cinquecento.
    Sviluppando un’idea del conservatore della Galleria Gianluca Zanelli, curatore della mostra insieme ad Andrea Muzzi, Soprintendente per i Beni Storici, Artistici ed Etnoantropologici della Liguria, l’esposizione si prefigge di isolare un nucleo di opere omogeneamente frutto della scuola pittorica fiorentina dei primi decenni del XVI secolo, momento di altissimo livello grazie a grandi maestri del Rinascimento toscano, inventori di quella “Maniera nuova” che avrebbe indiscutibilmente cambiato il modo di fare arte. Vengono dunque presentate opere della Galleria che si devono al pennello di Fra Bartolomeo, Domenico Puligo, Francesco Granacci, Pierfrancesco di Jacopo Foschi, alcuni dei quali furono significativi interpreti dello stile di Andrea del Sarto, cui non a caso le tavole erano storicamente attribuite, ne furono i principali interpreti e divulgatori.
    Che un così significativo nucleo di tavole fiorentine di primo Cinquecento sia presente tra le innumerevoli opere che decorano i salotti di Palazzo Spinola di Pellicceria, testimonia come il ricco mercato collezionistico e il gusto aggiornato dei committenti genovesi avessero favorito, già almeno dalla seconda metà del XVI secolo, la circolazione di opere d’arte di provenienza toscana, e fiorentina in particolare, destinate alle dimore private, ma anche, all’inizio dello stesso secolo, ad alcune chiese cittadine.
    Si evidenziano così, con l’esposizione isolata di questo nucleo di tavole, i diversi fondamentali aspetti che questa presenza ha significato, sia nel collezionismo che come aggiornamento artistico, evidenziando un legame tra Genova e Firenze, in un momento così cruciale e significativo, forse finora non largamente indagato e reso noto al pubblico.


    La Mostra
    Le opere, presentate in questa occasione dopo il restauro curato da Nino Silvestri e finanziato dal MIBACT, documentano ancora oggi in modo efficace la presenza nelle celebri quadrerie genovesi, per la maggior parte andate disperse, di raffinati dipinti fiorentini cinquecenteschi, un fenomeno che la mostra vuole rievocare e rivalutare presentando le proprie opere come raro documento conservato.
    E’ il caso della stupenda tavola raffigurante l’Incontro di san Giovannino con la Sacra Famiglia in Egitto di Francesco Granacci (Villamagna di Bagno a Ripoli, Firenze, 1469/1470 - Firenze, 1543), allievo di Domenico Ghirlandaio e amico di Michelangelo, con il quale mantenne sino alla fine della propria vita profondi rapporti documentati dalle lettere del Buonarroti. La tavola è una rielaborazione di quella conservata a Dublino (National Gallery of Ireland) e appartiene alla famiglia Spinola almeno dagli ultimi decenni del Settecento, quanto venne ricordata come opera di Andrea del Sarto. Grazie alla pulitura, l’opera ha svelato la sua notevole qualità esecutiva, con una pittura fluida ed elegante impreziosita da una ricercata tavolozza cromatica.
    Ricordata nel palazzo sin dal 1780 con l’attribuzione sempre ad Andrea del Sarto è anche la Madonna con il Bambino e san Giovannino, in cui un ignoto maestro fiorentino, vicino ai modi del pittore Jacopo di Giovanni di Francesco detto Jacone (Firenze, 1595-1554), allievo di Andrea del Sarto e poi seguace del Pontormo, ha riproposto le pose ardite e le suggestive torsioni che caratterizzano la Madonna con il Bambino e san Giovannino realizzata da Andrea del Sarto per il fiorentino Giovanni Gaddi intorno al 1515 e oggi conservata presso la Galleria Borghese a Roma.
    Documentata dall’inizio dell’Ottocento nel palazzo di Pellicceria con un’attribuzione a Perino del Vaga è infine l’inedita Madonna con il Bambino e due angeli di Domenico Puligo (Firenze, 1492 - 1527), artista formatosi nella bottega di Ridolfo del Ghirlandaio e poi divenuto stretto seguace di Andrea del Sarto, suo mentore e amico. Un’opera dai toni soffusi e intimi, tipici di questo raffinato pittore, il quale ripropose la stessa composizione in una tavola acquistata nel 1990 dal Wadsworth Atheneum Museum of Art di Hartford (Connecticut).
    A queste testimonianze, conservate nel palazzo degli Spinola almeno dalla fine del XVIII secolo, sono state accostate una Madonna con il Bambino e san Giovannino realizzata da Pierfrancesco di Jacopo Foschi (Firenze, 1502 - 1567), replica della Sacra Famiglia con san Giovannino dipinta da Andrea del Sarto per Zanobi di Giovambattista Bracci (Firenze, Galleria Palatina) - celeberrima composizione riproposta da Foschi anche in un’ulteriore tavola conservata a Budapest, segno del grande apprezzamento ottenuto dall’opera sartesca -, nonché una piccola tavola, concepita per una devozione privata, raffigurante Noli me tangere, attribuita a Fra Bartolomeo (Firenze 1473 – Pian del Mugnone, Fiesole 1517) da Andrea Muzzi. Si tratta di due opere appartenute a collezioni private, passate sul mercato antiquario genovese tra gli anni Cinquanta e Sessanta ed entrambe destinate alla volta degli Stati Uniti, ma acquistate per prelazione dallo Stato per essere poi destinate alla allora nascente Galleria Nazionale della Liguria.

    Coordinamento organizzativo:
    Farida Simonetti
    Progetto dell’allestimento e grafica
    Paola Marelli, Genova
    Realizzazione e montaggio allestimento
    Sciutto srl, Genova
    Illuminazione
    Nuova Coel, Genova
    Testi didattici
    Marie Luce Repetto, Hilda Ricaldone
    Restauri
    Antonio Silvestri, Genova
    Segreteria e rapporti con la stampa
    Flavia Rocca, Emanuela Travo
    con la collaborazione di Carolina Tonini



    Il catalogo
    L’esposizione delle tavole di Palazzo Spinola, presentate al pubblico nel suo insieme per la prima volta e studiate in questa circostanza da Andrea Muzzi ed Elena Capretti, con la collaborazione di Matteo Moretti per quanto riguarda le ricerche presso l’archivio storico del palazzo, ha permesso a Gianluca Zanelli di proporre nel catalogo della mostra, pubblicato da Sagep Editori, una breve illustrazione della fortuna di queste opere fiorentine nell’ambito dell’esigente collezionismo locale e di fornire un sintetico excursus dedicato all’ambiente pittorico genovese dei primi anni del Cinquecento, dove giunsero alcune novità del pieno Rinascimento fiorentino attraverso l’arrivo di preziose pale d’altare scelte per adornare edifici sacri e grazie alla presenza in città di maestri provenienti da Firenze.
    A seguito del restauro delle tavole, illustrato da Antonio Silvestri, le opere di Palazzo Spinola sono state sottoposte a indagini riflettografiche IR, di cui Maria Clelia Galassi ha reso noti gli interessanti risultati, mentre Marco Casamurata ha descritto, analizzando nello specifico la tavola di Pierfrancesco di Jacopo Foschi, l’utilizzo dei cartoni, secondo una prassi operativa che caratterizzava alcune delle migliori botteghe fiorentine di inizio Cinquecento. Degli autori delle opere esposte Massimiliano Ghillino, Matteo Moretti, Marie Luce Repetto, Hilda Ricaldone e Catia Righetti hanno ripercorso, attraverso brevi profili biografici, le importanti esperienze avvenute a contatto con i protagonisti della produzione figurativa fiorentina tra la fine del XV secolo e i primi decenni del Cinquecento, tra cui in particolare Andrea del Sarto.

    Redazione del catalogo
    Gianluca Zanelli, Matteo Moretti
    Impaginazione e grafica del catalogo
    Sagep Editori, Genova
    Direzione editoriale: Alessandro Avanzino
    Redazione: Titti Motta
    Grafica: Barbara Ottonello
    Stampa: Grafiche G7 sas, Savignone (Genova)



    Laboratori didattici
    Scambiamoci le emozioni
    Laboratorio (su appuntamento il martedì dalle 9.00 alle 11.30), a cura di Monica Terminiello finalizzato a scoprire e condividere, in un confronto di emozioni, i sentimenti dei protagonisti dei dipinti esposti.
    Per tutte le classi della scuola elementare e media.
    Per prenotazioni tel. 010 2705300



    Visite guidate tematiche
    Con l’ausilio di un tablet, il personale specializzato della Galleria illustrerà le immagini riflettografiche dei disegni sottostanti la pellicola pittorica delle cinque tavole fiorentine, mettendo in luce i segreti della tecnica pittorica degli autori.
    Per gruppi di almeno 10 persone
    Per prenotazioni tel. 010 2705300


    Incontri di approfondimento
    Tutti gli appuntamenti sono gratuiti per i possessori del biglietto del Museo

    Giovedì 14 novembre 2013, ore 16.30
    Andrea del Sarto, Pontormo e l’Apocalisse
    Antonio Natali
    Direttore della Galleria degli Uffizi, Firenze

    Giovedì 5 dicembre 2013, ore 16.30
    Fra Bartolomeo e il “sogno” savonaroliano
    Andrea Muzzi
    Soprintendente per i Beni Storici Artistici ed Etnoantropologici della liguria

    Giovedì 19 dicembre 2013, ore 16.30
    Discepoli e amici di Andrea del Sarto: Domenico Puligo e Pierfrancesco di Jacopo Foschi
    Elena Capretti
    Storico dell’arte, Firenze

    Giovedì 6 febbraio 2014, ore 16.30
    “Un palazzo ornato di stucchi e di pitture a fresco, a olio e d’ogni sorte”:
    Perino del Vaga e il cantiere di Palazzo del Principe
    Laura Stagno
    Università degli Sudi di Genova

    Giovedì 20 febbraio 2014, ore 16.30
    Pittori e dipinti fiorentini a Genova all’inizio del XVI secolo: Filippino Lippi, Raffaele De Rossi, Domenico Puligo, Perino del Vaga
    Gianluca Zanelli
    Conservatore della Galleria Nazionale di Palazzo Spinola

    Giovedì 6 marzo 2014, ore 16.30
    Fiorentini in COMUNE
    Piero Boccardo
    Direttore dei Musei di Strada Nuova, Genova

    Giovedì 20 marzo 2014, ore 16.30
    Metodi progettuali dei pittori della Maniera fiorentina: disegni, cartone, underdrawing
    Maria Clelia Galassi
    Università degli Sudi di Genova


    bigliettazione
    intero € 4,00 | ridotto (tra 18 e 25 anni) € 2,00
    cumulativo Palazzo Spinola e Palazzo Reale: intero € 6,50 | ridotto (tra 18 e 25 anni) € 3,25
    gratuito minori di 18 anni e maggiori di 65 anni | studenti universitari in materie umanistiche

    Informazioni Evento:

    Data Inizio:11 ottobre 2013
    Data Fine: 23 marzo 2014
    Costo del biglietto: 4,00 euro
    Luogo: Genova, Galleria Nazionale di Palazzo Spinola
    Orario: martedì - sabato 8.30 - 19.30 - domenica e festivi 13.30 - 19.30 - lunedì chiuso
    Telefono: 010.2705300
    E-mail: [email protected]
    Sito web: www.palazzospinola.it

    Dove:

    Galleria Nazionale di Palazzo Spinola
    Città: Genova
    Indirizzo: Piazza Pellicceria 1
    Provincia: GE
    Regione: Liguria

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    Francesco Granacci, Incontro della Sacra Famiglia con san Giovannino, Genova, Galleria Nazionale di Palazzo Spinola

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    Domenico Puligo, Madonna con il Bambino, san Giovannino e due angeli, Genova, Galleria Nazionale di Palazzo Spinola

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    Andrea del sarto (copia da ), Madonna con il Bambino e san Giovannino, Genova, Galleria Nazionale di Palazzo Spinola

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    Pierfrancesco Foschi, Madonna con il Bambino e san Giovannino, Genova, Galleria Nazionale della Liguria a Palazzo Spinola



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    “E’ questo quello che volevi/ vivere in un casa infestata dal fantasma/di te e di me?”.
    La risposta a questa domanda, formulata tanti anni fa tra i solchi di un rugginoso vinile di Leonard Cohen, arriva oggi, sussurrata dalle labbra di Anna Calvi: “Sì, è proprio questo”.
    Esorcizzare il dolore di una perdita, vincere finalmente la paura di un drastico cambiamento: per riuscire in quest’impresa è necessario sfidare i demoni, entrare un’ultima volta in quella dimora stregata. Lungo corridoi spettrali e camere separate, tra lenzuola ancora tiepide o al centro di immagini in cornice, un tempo familiari. "One Breath" è tutto questo, racconta secondo l’autrice “il momento precedente all’apertura di te stesso, e parla di quanto sia terrificante. E' spaventoso e al tempo stesso emozionante. Ma anche pieno di speranza, perché qualunque cosa debba succedere non è ancora successa". Che il sipario si alzi, dunque, che il viaggio abbia inizio.

    Il secondo album di Anna Calvi bussa alla porta a due anni e mezzo dall’esordio: ci ritroviamo di fronte un’artista più matura, più consapevole, ormai padrona dei propri mezzi espressivi. Ma non sazia, al contrario: l’inquietudine creativa e la curiosità, sulle ali di una musica mai così passionale, viscerale, intensa, l’hanno scortata oltre ancora una volta, come del resto suggerisce il titolo di uno dei nuovi brani. Colori diversi impreziosiscono la tessitura degli arrangiamenti: gli archi lirici arrangiati da Fiona Brice, le tastiere e i suoni synthetici di John Baggot, già collaboratore dei Portishead. Ai due lati del palco, i complici di sempre: Daniel Maiden-Wood alla batteria e Mally Harpaz all’harmonium, percussioni e vibrafono. La silhouette angelica di Anna domina la scena: il suo canto epico, nostalgico, fragile e indomito è capace di esplodere e un attimo dopo restare solo un’eco flebile nel teatro vuoto. La regia del produttore artistico John Congleton (Joanna Newsom, Bill Callahan, Antony & The Johnsons) ha saputo portare per mano la cantautrice verso territori vergini, senza tuttavia smarrire la strada: come avrebbe fatto un David Lynch o un Tim Burton dietro la macchina da presa, ha tirato fuori il meglio dalla sua attrice protagonista e in appena cinque settimane di registrazioni – laddove il primo album aveva richiesto due anni e mezzo per essere realizzato – nel verde della campagna francese è nato “One Breath”.

    Le novità appaiono gradualmente. Le prime due canzoni, “Suddenly” ed “Eliza”, quanto a mood sembrano quasi una coda del disco precedente, come se Anna avesse voluto farci accomodare su quella vecchia e comoda poltrona prima di esplorare meandri non illuminati: andamento marziale ed enfatico, batteria e chitarra elettrica, vocalizzi a riempire ritornelli poveri di testo. Fin qui nulla di nuovo. Al terzo episodio, “Piece By Piece” si comincia a cambiare registro: una lunga strofa sorretta da una figura fissa di batteria, zampillante suoni synthetici, rumori e aperture di tastiera, ora disturbanti ora idilliache: chissà, piacerebbe forse a Thom Yorke, di sicuro a una stravagante come St. Vincent. E al termine di una breve “Cry”, innervata da dinamiche consuete "rumore-quiete", ecco il primo autentico gioiello: “Sing To Me” è una ballata d’amore, di un calore freddo e lunare, sospesa su note placide di chitarra e basso; entra il piano e per alcuni magnifici istanti si vola su, in un crescendo d’archi che riprende la linea melodica del coro, che sale di intensità per poi sfumare ancora, sul bagnasciuga di una spiaggia segreta, deserta e sotterranea.

    Fa da contraltare la furia elettrica di “Love Of My Life”: un rockaccio duro, arrugginito e psichedelico che, per la prima volta con una certa cognizione di causa, accomuna la Nostra a una PJ Harvey dei bei tempi. Il respiro straniante e certe immagini d’oltremondo sperimentate poco prima saranno ribadite nella title track, quasi a voler sottolineare l’importanza di questo tipo di suggestioni, più intime e impalpabili rispetto a quelle ascoltate all’inizio del disco e della carriera.
    La sorprendente coda strumentale di “Carry Me Over”, con il canto che riprende il sopravvento prima della chiusura, sintetizza alla perfezione il nuovo corso stilistico vissuto e interpretato da Anna Calvi: tastiere e vibrafono, archi e chitarra elettrica quindi una voce, la sua voce. Che riesce a salire e scendere incredibili vette emotive con la stessa confidenza di una performer consumata restituendo, al tempo stesso, tutto il pathos di una giovane che ha la meglio sui suoi incubi.

    Gli ultimi due brani sono un’ulteriore discesa nella tormentata psiche di Anna: l’avvolgente “Bleed Into Me”, lettera d’amore e insieme preghiera laica, ritrova per miracolo la Grazia sepolta di Jeff Buckley; “The Bridge” asciuga questa e ogni altra lacrima rialzandosi in funerea processione.
    In scena ormai resta solo il coro e la voce di Anna, mai così nuda e vulnerabile, mai così altrove. Come Orfeo, anche lei si guarderà indietro, per un’ultima volta. Dai suoi occhi è come se potessimo scorgere il bianco dei fantasmi che aleggiano intorno alla cattedrale. Ma è solo un momento, perché quel ponte da una porticina dietro l’altare scorterà noi e lei in salvo, alla fine del sogno. Di quelle immagini non resterà che un’eco, languida e inquietante.

    Tracklist

    Suddenly
    Eliza
    Piece by Piece
    Cry
    Sing to Me
    Tristan
    One Breath
    Love of my Life
    Carry Me Over
    Bleed into Me
    The Bridge

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  14. .

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    Il 7 ottobre alle ore 18.30 presso la Galleria nazionale d'arte moderna inaugurerà la mostra ''Duchamp - Re-made in Italy''. A cento anni esatti da "Ruota di bicicletta", il primo ready-made di Marcel Duchamp, la Gnam dedica una mostra all'artista che ha rivoluzionato definitivamente il concetto di opera d'arte, con imprescindibili conseguenze per tutta la cultura contemporanea a partire dai primi decenni del XX secolo.

    L'esposizione verte principalmente sulle opere donate al museo dal gallerista Arturo Schwarz e ripercorre anche l'esperienza italiana di Duchamp nei primi anni Sessanta. Una sezione ospita le opere di quegli italiani - Baj, Baruchello, Dangelo, Patella - che con l'artista hanno avuto rapporti diretti e per i quali la sua opera ha rappresentato un fondamentale riferimento.
    La mostra è curata da Stefano Cecchetto, Giovanna Coltelli e Marcella Cossu con l’allestimento di Alessandro Maria Liguori.

    La preview per la stampa è prevista il 7 ottobre 2013 alle ore 12.00.
    La mostra sarà aperta al pubblico dall' 8 ottobre 2013 al 9 febbraio 2014.

    Informazioni Evento:

    Data Inizio:07 ottobre 2013
    Data Fine: 09 febbraio 2014
    Costo del biglietto: 10 € intero ; Riduzioni: 8€ ridotto - 4€ ridotto scuole; Per informazioni 06 32298221
    Prenotazione: Nessuna
    Luogo: Roma, Galleria nazionale d'arte moderna
    Orario: mar-dom 10.30-19.30; lun chiuso
    Telefono: 06 322981
    Fax: 06 3221579
    E-mail: [email protected]
    Sito web: www.gnam.beniculturali.it

    beniculturali
  15. .

    Pieter Brueghel il Vecchio (Pieter Bruegel the Elder) - Paese della cuccagna

    1567 - olio su tavola - 52x78 cm - Monaco di Baviera, Alte Pinakothek


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    Il paese della cuccagna è un soggetto della fantasia popolare, citato e descritto anche in numerose opere letterarie, molto note nelle Fiandre all'epoca di Bruegel.
    Un contadino, un chierico e un soldato, i tre ceti della società feudale, riposano indolenti all'ombra dell'albero della cuccagna, dal quale pende una tavola piena di vivande. Sono tutti giovani, perché nel paese di cuccagna esiste la fonte della giovinezza. Il contadino, con la mazza per la trebbiatura con cui si batteva il grano fino a separare le spighe dalla paglia, dorme su un fianco, il soldato sta a cavallo della propria lancia e il chierico, adagiato nella morbida imbottitura di pelliccia del sua abito, sogna ad occhi aperti. Essi sono disposti a raggiera attorno all'albero, secondo un ordinato schema compositivo e spaziale.
    A sinistra un altro soldato emerge da un rifugio col tetto coperto di torte, allusione al modo di dire fiammingo che significa "essere ricchi". L'uomo guarda in alto e apre la bocca, poiché sta per cadergli addosso un piccione arrosto. Ogni genere di ghiottoneria popola la scena, dall'uovo à la coque che vaga con le proprie zampette e con un coltello giù conficcato per essere gustato, al pollo arrosto che si accomoda su di un piatto, fino al maiale che corre con un coltello sul dorso che lo sta affettando. A sinistra un uomo sta scendendo da un buco in una montagna di polenta, poiché, come scrisse anche Sach, solo mangiando e scavandosi un buco si può arrivare al paese; l'uomo tiene infatti un mestolo in mano, e sembra cadere sorpreso di essere arrivato. Divertita e ironica appare la descrizione di questi particolari surreali, in parte riecheggianti Bosch, in parte derivati dal altri dipinti di Bruegel (come i Proverbi fiamminghi e la Mietitura), in parte originali.
    Il messaggio finale della tavoletta resta oscuro: forse contiene una condanna della gola e della pigrizia, o forse un ammonimento moraleggiante verso i potenti, di come il paese potrebbe essere senza la durezza del loro governo.
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